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ELOGIO DEL BICCHIERE MEZZO PIENO

Carissimi,

credo proprio di non sbagliarmi: il bicchiere mezzo vuoto vince - e largamente - sul bicchiere mezzo pieno.

Le metafore vanno prese senza eccessi ma anche senza oscurare quanto riescono a condensare e semplificare e anche questa del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto qualcosa dice o racconta. Di me, di voi, di questa umanità.

Se domina il mezzo vuoto non c'è da far festa. Significherebbe che la maggioranza degli uomini e delle donne è sbilanciata, de-centrata su ciò che non è e non ha. Uomini e donne che non si piacciono e non sono contenti di ciò che hanno. Uomini e donne calamitati da qualcosa che cambi magicamente loro e la loro sorte. Insomma: il mezzo vuoto o come misura di pessimismi, insoddisfazioni, frustrazioni e depressioni o come spazio frequentato dalla fortuna, dalle magie e diavolerie, da tutto il miracolismo sacro o profano che sia, da un qualche "deus ex machina" da cui ottenere tutto "per grazia ricevuta", dispensati da scomode responsabilità. Oppure l’una e l’altra cosa insieme nella frequente miscela di resa e svendita di se stessi.

E tutto a dispetto del mezzo pieno che pure c'è. Perché il bicchiere mezzo vuoto non è uguale - l’ovvio non è sempre ovvio! - al bicchiere vuoto cioè al niente dell’avere che può (ma, spesso, si è sorpresi dall’opposto) assottigliare o quasi ridurre al niente dell'essere. Qui c'è il mezzo pieno e saltarlo, deprezzarlo, non saperlo vivere e anche gustare è farsi del male. È palese autolesionismo. Una specie di suicidio bianco perché si uccide ciò che comunque - il "quanto" è secondario: il limite è la nostra inevitabile misura!- siamo ed abbiamo. Il che si verifica anche nell'abbinamento mezzo vuoto attese miracolistiche cioè nella pretesa di avere il "dopo" annullando il "prima", l'albero trascurando il seme.

Mi propongo, e vi propongo, di infoltire le file della gente del bicchiere mezzo pieno. Non sarà facile coltivare faccia serena accerchiati da facce imbronciate ma occorre far qualcosa per smetterla con questo lugubre e farneticante spreco di umanità. La mia terapia si affida ad espedienti forse ingenui o forse essenziali. A dispetto dello specchio che non mi incoraggia a narcisismi cerco di godermi come concentrato di prodigi: cammino, odo, vedo, parlo e, bene o male, penso anche. Non basta per apprezzarmi? Forse, ma non accampo rigori esegetici - il Regno segnalato dove i ciechi vedono, i sordi odono ed i muti parlano è il Regno non soltanto dei miracolati da menomazioni ma anche ( soprattutto?) dei miracolati da distrazioni dal miracolo che siamo. E ripenso a quel "ama il prossimo tuo come te stesso" accentuando il "te stesso" come preliminare indispensabile e condizionante: la gente del mezzo vuoto ama il mezzo vuoto del prossimo; soltanto la gente del mezzo pieno diventa capace di amare il mezzo pieno che è in ogni essere vivente. Tento di neutralizzare anche il mio pessimismo dell'avere, di ciò che ho rispetto a quanto altri hanno e magari vorrei avere. Vi confesso una banalità: dopo certi miei pasti di personalissima produzione eppure anche di personale piena soddisfazione mi viene da chiedermi cosa mai Agnelli (sempre lui!) abbia potuto mangiare di più e di meglio! E questo, salvo variazioni del caso, si ripete su tutto l’arco delle mie esigenze: abbigliamento, abitazione... Qualche difficoltà la trovo: ad esempio nei servizi sociali. Ma, in fondo, fare la fila ai vari sportelli o non farla non è proprio la fine del mondo. E non è nemmeno decisivo disporre di un intero piano di un ospedale e di un esercito di primari se si riesce ad avere almeno un letto in corsia e almeno un medico decente. Le nostre necessità essenziali non sono a misura dei miliardi e dei privilegi. A ben riflettere sono proprio i miliardari e i privilegiati che finiscono per ridursi al mio indispensabile: mangiare, vestirsi... In ogni caso sono ciò che sono ed ho quello che ho. Il resto è il vuoto buono per precipitazioni suicide o per attese costruite sul niente.

Il vuoto, in quel metaforico bicchiere, sta in alto e il pieno in basso. Altra ovvietà ancora una volta affatto ovvia. L’alto si identifica con la parte nobile: dall’attico al cielo. Anche il cielo paese delle religioni. Viene da chiederci: le religioni abitano il mezzo vuoto? Non intendo scadere nello sbrigativo che è sempre falsificazione della complessità. Però merita provocare: le religioni tendono ad aspirarci fuori della nostra dimensione, portarci dove non siamo. E ritengo che tra la teologia del bicchiere mezzo pieno e la teologia del bicchiere mezzo vuoto vinca quest'ultima. Anche nella teologia cristiana che da religione di "incarnazione" ha finito per diventare religione di "disincarnazione".

Lascio sospeso ciò che esige di essere dilatato e approfondito. Però vi affido un paio di domande. La prima: la teologia del mezzo vuoto è proprio senza responsabilità rispetto allo scarso amore verso noi stessi e rispetto al mercato di ciò che riteniamo sovrastarci e dominarci?

La seconda: la teologia del mezzo vuoto è proprio estranea alle nostre alienazioni dalla storia, dal quotidiano; alle nostre frequenti deresponsabilizzazioni?

 

Martino Morganti


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