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IN BARBA AL PIFFERAIO E AL GUARDIANO DELLO “SPREAD”!



Data: 24 Febbraio 2013
Autore: Sergio Sbragia
Fonte: TdF marzo 2013



La Sinistra è una realtà plurale, ed è bene che tale sìa. A dire il vero, avrei timore di uno schieramento di centro-sinistra monolitico e privo di libera espressione per le singole e diverse componenti ideali e politiche
che nel grande movimento della Sinistra si riconoscono, semmai ben incolonnato dietro una figura di leader carismatico. È invece molto più rispondente all’immagine di una società civile partecipe e responsabile, la realtà
di una galassia di identità diverse, maturate storicamente intorno a esperienze reali di condivisione, di promozione di diritti, di affermazione
dei valori del lavoro, della solidarietà e della pace, di tutela dell’ambiente e promozione di uno sviluppo equo e compatibile.
Spesso sento ripetere una sciocchezza macroscopica. In tutte le salse si sente dire (anche da autorevoli “politologi” professionisti) che le categorie tradizionali di “destra” e “sinistra”, sono superate, sono un retaggio del
passato, non sono più adatte a rappresentare la realtà dell’odierno confronto politico.
Niente di più errato!
Per me, “sinistra” significa stare dalla parte dei deboli, dei poveri, degli emarginati, dei discriminati, di coloro che lavorano e producono e di quanti vorrebbero lavorare ma, nonostante gli sforzi e la preparazione, sono con
prepotenza esclusi dal mondo produttivo. “Destra”, per contro, significa stare con i potenti e con i prepotenti.
Per questo, da laico cristiano (ricordando l’insegnamento del falegname di Nazareth: «Beati i poveri... e i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli»), ho scelto in autonomia di “stare a sinistra”,
fianco a fianco con donne e uomini anche di altra ispirazione religiosa, filosofica e culturale, ma con il comune intento di stare dalla parte
dei deboli e della giustizia.
Se qualcuno mi dimostrasse che oggi non ci sono categorie di deboli, di poveri, di emarginati, di discriminati, sarei disposto a riconoscere
che definirsi “di sinistra” possa essere fuori moda. Purtroppo la realtà che sperimentiamo quotidianamente ci dice tutt’altro. Oggi c’è, forse più di ieri, un grande bisogno di “sinistra”.
Infine, va ricordato che la politica di destra è “facile”; la politica di sinistra è “difficile”. Per rendersene conto basta fare un esempio. Se ci
capita di assistere per strada all’aggressione di un prepotente ai danni di un povero malcapitato, per stare dalla parte del prepotente è sufficiente
non far nulla e rigare dritto. Per stare dalla parte del debole aggredito, occorre intervenire, fare qualcosa, interporsi, chiamare aiuto e si “rischia di prenderle” o anche solo di sbagliare il modo d’intervenire. Il dato che nella storia della sinistra le sconfitte siano più numerose delle vittorie è indicativo di questa difficoltà, ma è anche la ragione per dire, ancora
oggi, che “stare a sinistra” è bello (lasciatemi pronunciare quest’aggettivo che, forse, nel gergo comunicativo odierno è un po’ desueto).
“Stare a sinistra”, in definitiva significa: testimoniare nella vita quotidiana, con semplicità ma con fermezza, il valore della solidarietà
come alternativa reale e praticabile alla competizione egoistica.
“Sinistra” non è un’etichetta, ma un fare concreto.
Quando si offendono i diritti umani (al di là delle etichette, delle bandiere e degli schieramenti) ci si pone automaticamente al di fuori della “sinistra”, come anche della Chiesa. Il riferimento, poi, alla Parola del Signore è da
intendersi quale momento originario d’impegno, che va letto nella sua piena autenticità.
La scelta preferenziale per i poveri e per i deboli costituisce “il dato centrale” della predicazione di Gesù. “Ogni qual volta avete fatto
qualcosa per costoro, lo avete fatto a me”. Anche sua madre, Maria di Nazareth, ha avuto modo di affermare solennemente che: “[Il Signore]
ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni; ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati; ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc. 1, 51-53).
La scelta per i poveri deve necessariamente essere il primo valore al quale noi credenti dobbiamo riferirci quando giudichiamo in autonomia laicale i programmi politici. Di fronte ai processi in atto di concentrare in poche o pochissime mani le ricchezze del creato originariamente destinate
a tutti, sento il dovere di affermare il principio dell’insegnamento
sociale della Chiesa, che ricorda la loro destinazione universale. È sull’effettiva capacità di rispondere ai bisogni degli ultimi che si giudicano i programmi politici.
È naturale che i laici cristiani possano realizzare su questo scelte diverse, ma è dovere di ciascuno vigilare che i diversi programmi politici, che sono progetti storici e umani (dunque fallibili), siano coerentemente fedeli al servizio dei poveri.
La presenza, nella consultazione elettorale, di una pluralità di proposte politiche che si collocano nell’area del centro-sinistra, a mio avviso, non è un segnale di debolezza, ma un’autentica ricchezza. Nessuna componente della sinistra è un ingombro; tutte sono essenziali e tutte contribuiscono
a difendere i diritti dei lavoratori, delle donne e dei giovani del nostro paese. Facciamo della pluralità la differenza con gli schieramenti personalistici della destra. La pluralità sia la nostra forza.

QUANDO FINISCE LA CRISI?
DALLA PARTE DEL 99%

È la domanda che mi è stata rivolta dall’amico romeno N. mentre distribuivo la calza della Befana ai suoi due figlioletti, in riferimento alla difficoltà da anni di trovare lavoro degno di questo nome specialmente in tempo di crisi. Come un ritornello questa sua preoccupazione mi ritorna in mente come domanda ed attesa diffusa al di là delle difficoltà delle stesse istituzioni europee e nazionali di fare previsioni sull’uscita dal tunnel.
Stupisce per certi versi che da pensionati, lavoratori, piccoli imprenditori appartenenti al ceto medio i cosiddetti “sacrifici” per attuare “il patto di stabilità”, secondo le direttive europee, siano stati subìti o accettati senza soverchie reazioni. A parte i cortei dei lavoratori delle industrie
in crisi davanti alle sedi istituzionali, dalle mie parti a Napoli
quelli dei “disoccupati organizzati”, per anni assistiti con corsi di formazione mascherati, e degli operatori dei servizi socio-assistenziali che con lo slogan “Il welfare non è un lusso” rivendicano pagamenti arretrati dal Comune partenopeo, per cui nell’estate scorsa perfino alcune suore
si sono incatenate davanti alla sede del Municipio.
Non sembra proprio che nella politica di austerity montiana abbia trionfato l’equità e tasse e balzelli abbiano rispettato la progressività richiesta dalla Costituzione rispetto alle condizioni economiche. Nel tentativo di risanamento finanziario, ingoiato dai partiti come una medicina amara,
nel dibattito pubblico sull’equità o meno delle misure adottate è emersa chiaramente la ineguale distribuzione delle ricchezze nel nostro paese in cui, se non andiamo errati, il 10% della popolazione possiede il 50% della ricchezza.
O come conseguenza del movimento statunitense “Occupy Wall Street” del 2011-2012 - contro le sedi del potere finanziario, del capitalismo globale e le complicità di potere economico e politico - e del dibattito che ha generato
su Internet e sulle testate tradizionali, “la questione della disuguaglianza sociale simbolizzata dall’opposizione tra il 99% e l’1% è diventata di primo piano nel discorso pubblico” (M. Castells, Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era Internet).
Infatti, la quota del reddito USA appartenente all’1% della popolazione, nel periodo 1976-2006, è salita dal 9 al 23,5%.
E per il periodo 1980-2007, l’1% della popolazione si è appropriato del 58 % dell’intera crescita economica del periodo. È importante verificare l’impatto politico sulla consapevolezza della gente di un movimento sociale o di
un dibattito pubblico, anche se derive populiste e particolaristiche
nel nostro paese trovano seguito per l’abilità comunicativa e la manipolazione mediatica, ma non solo, di leader politici o imbonitori anche se con facce diverse.
Secondo la tesi del sociologo ispano-statunitense citato, lotta fondamentale per il potere è quella per la costruzione di significato nella mente delle persone, per plasmare la mente umana. Il potere, nella prospettiva teorica di Castells, è costruito nelle menti mediante processi di comunicazione,
processi di condivisione di significato tramite lo scambio di informazioni. In questi ultimi anni il maggior cambiamento nel mondo della comunicazione di massa è stata la nascita di quello che questo studioso ha
definito “autocomunicazione di massa”, l’uso di Internet e delle reti senza
fili come piattaforme di comunicazione digitale.
Grazie a reti autonome di comunicazione orizzontale, i cittadini dell’età dell’informazione sono in grado di inventare nuovi programmi legati alla loro sofferenza, alle loro paure, ai loro sogni e alle loro speranze, e quindi veicolare nuovi valori ed obiettivi. I movimenti sociali creano contropotere autocostruendosi mediante un processo di comunicazione autonoma, libera da quanti detengono il potere istituzionale. I social network digitali offrono la
possibilità, senza restrizioni, di deliberare e coordinare l’azione.
Meditate gente, non solo rabbia o indignazione, c’è speranza nell’era di Internet per la comunicazione e mobilitazione sociale. Almeno per accrescere il tasso di equità, cioè di giustizia sociale, che non è molto di moda nel pensiero liberale e populista, trascurato se non schiacciato dall’emergenza.
Crisi appunto, di equità!