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In viaggio con papà



Data: 27 Gennaio 2010
Autore: Primarosa Pia



E tutti pensiamo al film con Sordi e Verdone, alle vite di quel padre e di quel figlio, per un lungo tratto parallele, che improvvisamente sembrano convergere per tornare a distanziarsi, forse a divergere all’infinito…
Credo che anch’io, nel 1963, a undici anni, quando papà ha caricato tutta la famiglia sul pulmino cui la zia Albertina aveva cucito le tendine a fiori ai finestrini, vivessi in un mondo molto lontano da quello in cui viveva e aveva vissuto papà. La fragile biondina, bravissima a scuola, aveva già letto molti libri, ma nella sua testa non riusciva a farsi spazio una realtà, un macigno di cui sentiva parlare da sempre e che aveva un nome alle sue orecchie spaventoso: Mauthausen.
Niente mostri giapponesi alla tv, mamma tric-trac e pulcino ballerino… ma quei libri, piccoli, pochi, con quelle foto di scheletri con gli occhi sbarrati, che mamma e papà a volte sfogliavano e che mamma doveva tenere rinchiusi perché mi rifiutavo anche di entrare nelle stanze dove erano custoditi… forse ero bravissima a scuola.. chissà.. ma non avevo capito che quelle foto mi riguardavano, che riguardavano la mia stessa carne da quando ero nata… o forse lo avevo capito troppo bene…
L’unico, grande ricordo che ho di quel viaggio è la paura.
Non so quanto se ne rendesse conto il papà, sicuramente ancora alle prese con ferite e fantasmi ben più grandi dei miei, la mamma capiva, certamente, ma anche lei e zia Albertina vivevano la loro tragedia personale, ripercorrendo i passi di quel fratello giocherellone, non ancora diciottenne diventato scheletro prima di morire e finire nel vento…
Lele era troppo piccolo, Vitto esorcizzava facendo fotografie, io non ricordo cosa raccontava papà, ricordo quella fortezza grigia nella quale lui a me sembrava muoversi con indifferenza, come un estraneo, le baracche sporche, i sotterranei dove i muri, tutti, erano completamente ricoperti da scritte, migliaia, diverse per lingua, grafia, colore, ma quasi tutte brevi.
Avevo capito bene che erano il grido di dolore di un’umanità sofferente, ma non potevano riguardare me, perché poi? Che ci facevo in quel posto così orribile?
Ci sono uscita con gli occhi chiusi, per non vedere la foto, l’unica, appesa all’interno del portone d’ingresso: un viso ritratto in primo piano, ossa sporgenti e immensi occhi, più eloquenti di qualsiasi verbo.
Gusen era un grande prato, un paio di case costruite da poco, lo scheletro del crematorio, qualche baracca in muratura.. e stava scendendo il buio, nemico di molti bambini e soprattutto delle fragili bambine bionde…
Quanti di voi, che non siano i superstiti che sappiamo, hanno dormito in un albergo con vista sul forno crematorio di un Lager?
Quella notte il mio lettino a quadrettini bianchi e blu è rimasto vuoto, stretta a zia Albertina, nel suo letto col piumino a quadrettini bianchi e rossi forse ho dormito, forse no.
Sono passati quarant’anni prima che trovassi la forza di tornarci.
Siamo in gruppo, ma sono sicura che lui pensa solo a me, e io solo a lui.
Per lunghi anni ha cercato in ogni modo di coinvolgermi: mi ha proposto libri, mi ha raccontato i sui incontri con gli amici ex deportati come lui, si è portato più volte i miei figli nei pellegrinaggi, e alla fine, come sempre, ha raggiunto lo scopo: ha scritto la sua storia e me l’ha affidata. Non ai mie fratelli, proprio a me.
L’ho letta trascrivendola, l’ho vissuta trascrivendola, cercando vie d’uscita tutte mie e qualche volta trovandole, poi ho capito, ho capito quello che ora cerco di far capire a chi parla con me dell’argomento che mi sta riempiendo la vita: hanno ragione loro, non è fuggendo che si vincono le paure, è affrontandole, per tanto grosse che possano sembrarci.
Il secondo viaggio che ho fatto con lui, dopo quarant’anni dal primo, è stato un impegno reciproco a controllare le nostre emozioni, lo stesso pudore vissuto recentemente quando mamma se ne è andata, ma non le nostre tensioni di sempre. Non essere soli è servito, nessuno come me conosce la sua ansia di trasmettere ai giovani, oltre ai grandi principi della non violenza, quelli della tenacia e dell’amore per la vita, e so che il poterlo fare, ascoltato, è una molla che in un certo senso gli fa sentire quasi “accettabile” il prezzo che ha pagato in quei posti di morte, e questo pensiero mi rasserena.