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Lettera, aperta e immaginaria, ad Antonio Socci



Data: 15 Novembre 2016
Autore: Michele Meschi



Gentile dottor Socci,

senza simulata ironia mi rivolgo da semplice lettore, invero meno di lei definibile “cattolico”, perlomeno nell’accezione che credo ami dare di se stesso; è da semplice “pensante” – per usare volutamente un termine caro al mai troppo compianto cardinale Martini – che mi permetto la finzione letteraria di un bonario “j’accuse” nei suoi confronti, fatto salvo il profondo rispetto della sua opinione e della storia personale che ad essa verosimilmente ha condotto. Tanto più che, non conoscendola personalmente, non mi permetterei di affrontare direttamente con lei temi che richiedono almeno reciproca confidenza e comunanza di intenti, nell’ottica di un (presunto) bene comune.

Amo credere che le durissime posizioni espresse quasi ogni giorno sul pontificato di Jorge Mario Bergoglio siano da leggersi come declinazione pratica del suo pensiero e delle sue riflessioni sul ruolo che la spiritualità riveste in questa società; in altre parole, che siano veicolo di divulgazione per il suo costrutto interiore e per le produzioni del suo mestiere di scrittore: mutatis mutandis, in una sorta di analogia con l’ultimo Giampaolo Pansa, che non si esaurisce certo nella veste del revisionista con cui incontra il favore di una nicchia di lettori rimasta politicamente orfana per tanto tempo.

Se così non fosse, se realmente lei volesse ergersi a difensore di una fede in via di corruzione per i mali della secolarizzazione, se si sentisse investito del sacro furore dell’apologia di Dio, non esiterei un istante – e credo con me molti credenti, di certo di me più degni – ad affermare: no, sinceramente, in quel suo Dio noi non crediamo e non crederemo mai.

Non crediamo in un Dio che esige sacrifici, consacrazioni, totale dedizione; in un Dio tribale, che soffoca la libertà dei suoi figli nelle luciferine fauci della trinità blasfema Dio-Patria-Famiglia, dell’obbedienza col capo reclinato, della genuflessione, dei valori non negoziabili.

Non crediamo alle molteplici apparizioni di santi e madonne come fossero divinità pagane, alle infinite preghiere fatte di ripetizioni mantriche di parole e immagini ormai desuete e inadatte al nostro mondo.

Non crediamo all’infallibilità della Chiesa, ma a quella dello Spirito; non crediamo alla coercizione delle coscienze, al gioco archetipico della colpa e della remissione, del dolore come agente di purificazione, della sofferenza come gradita al cielo.

Crediamo piuttosto al principio secondo cui, con Giovanni, “Dio nessuno l’ha mai visto”; pertanto, il Figlio non è come il Padre. Se mai è il Padre a essere realmente come il Figlio ci ha mostrato: ovvero l’applicazione concreta dell’amore senza condizioni, del perdono che precede e rende non necessario il pentimento; l’amore che non si fa dogma, dottrina, religione o teologia ma vita reale, aiuto del samaritano, infrazione del sabato, distruzione del tempio, fine della dimensione terrena e politica della fede.

Se papa Francesco non pronuncia discorsi di Ratisbona, non si perde in sottigliezze accademiche, svilisce l’autorità terrena del soglio di Pietro è perché non ha tempo per questi fariseismi. Corre piuttosto a guarire le ferite che spesso la sua stessa Chiesa ha inferto con secolare incomprensione, giudizio, condanna. Le mani di Bergoglio non si vedono mai giunte perché indaffarate a sollevare, carezzare, rialzare, donare dignità.

Questo è Dio, Socci. Perlomeno il Dio dei cristiani. Non lo cerchi nel catechismo, non lo troverà: guardi piuttosto per strada, sui barconi dei migranti, nella siringa del drogato morto da solo per strada, nel pensionato che non arriva a fine mese e attende nipoti che non andranno a trovarlo.
Guardi nell’uomo. Dio è lì, lo ha detto il Cristo. Rahner, von Balthasar, Theilard de Chardin, Congar, Küng e tutto il Concilio lo hanno ribadito.
Quindi, per cortesia, quando parte con le sue invettive, lo faccia in nome del suo Dio. Non del nostro. Non dei cristiani. Non dei cattolici.

Come diceva il poeta De André, non gridi all’inferno: “L’inferno esiste solo/ per chi ne ha paura”.