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Traducendo Brecht



Data: 04 Agosto 2013
Autore: Franco Fortini



Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.

Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire la parola d’un poeta o il mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.

Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.


Fortini, che traduce Brecht poco prima della sua morte, alla fine degli anni 50, tende a riaffermare la forza del messaggio Brechtiano. Scrivi sapendo che non cambierai il mondo. Scrivi perché sei uomo, scrivi per ribellarti, scrivi anche se nessuno ti leggerà.

Se anche noi, spesso, scriviamo il nostro nome nella lista dei nemici, se nulla è sicuro, nel turbinio degli orientamenti ideologici, non dobbiamo smettere di tentare. Il rischio è sempre quello di perdersi, ma non sarà, almeno secondo la lezione fortiniana – e brechtiana – un perdersi invano.