Dove? Quando? Perché?
"C’era una volta" è il tempo immobile e ripetitivo della fiaba, non quello, dinamico e diversificato, della Bibbia. Proprio come il "giardino dell’Eden" è il luogo ideale del mito non quello problematico della storia. La Bibbia contiene fiabe, coi loro tempi e i loro luoghi, sul genere della cornice narrativa di Giobbe, e contiene tempi e luoghi del mito, non solo nei primi capitoli di Genesi. Ma non è né mito, né fiaba e, a rigor di temini, non è neppure solo storia.. Il suo genere letterario è misto. Varia col variare degli scritti che la compongono e, forse, sarebbe giusto non chiedersi neppure se si possa cercare in essa una linea narrativa prevalente, un filo conduttore unico, visto che del suo stesso vertice cristiano, il Crocefisso-Risorto, ci offre molteplici interpretazioni.
Eppure, come abbiamo visto, la Bibbia è un libro che ha un inizio e una fine aperti, una storia di difficile collocazione, dei protagonisti inafferrabili e degli autori in via di auto-identificazione. È impossibile che abbia tempi e luoghi a tutto ciò inadeguati.
Così è appunto. Il luogo chiave della Bibbia è sempre un qui, teso altrove. Il suo tempo privilegiato un presente, bisognoso di compimento Di conseguenza il suo perché sarà anch’esso nulla più che un affinché. Vale a dire: non una causa prima necessaria, ma un fine ultimo possibile; non un dato di fatto, ma un impegno liberamente assunto; non una certezza assoluta, ma una promessa; non una norma stabilita da sempre, ma una sfida alla fedeltà e alla sua intelligente capacità di non tradire e non essere tradita nel difficile gioco della relazione.
Lontano da dove?
Per l’eroe biblico, tanto umano quanto divino, la perdita del luogo delle origini è dato primario. L’uscita dal "Paradiso terrestre" non è un dramma solo per la discendenza di Adamo. È un dramma anche per Dio. Egli, che già faticava a trovare la sua immagine nascosta tra gli alberi del giardino (Gen 3, 9), sarà costretto, dopo il diluvio, ad ardere in un roveto per attirare lo sguardo di Mosè (Es 3, 1-6), a pendere senza vita da una croce per farsi riconoscere da un pagano(Mc 15, 39).
Il mito della cacciata dall’Eden è il simbolo della condizione straniera dell’uomo in terra e di Dio al suo fianco, del loro perenne stato di esodo. Mai più l’uomo potrà varcarne la soglia, custodita dalla spada fiammeggiante dei cherubini (Gen 3, 26). Mai più Dio sentirà il bisogno di frequentarlo, ora che non è più abitato dall’uomo. Neppure come meta di possibile ritorno il mitico giardino rientra nel racconto biblico della salvezza. Ezechiele addirittura parla dei suoi alberi, finiti nello Sheòl, come simbolo della fine di ogni stabile potenza imperiale (Ez 31, 16-18). Altra cosa sarà la Città escatologica dei profeti e dell’Apocalisse: non la chiusura di un ciclo o il ritorno all’origine, ma la meta, conosciuta quasi solo come speranza, di un’esperienza storica, frammentaria e incoativa, eppure aperta alla gratuità dell’incontro, alla consolazione del reciproco riconoscimento, al piacere della condivisione (Is 62; Ap 21), (S. Levi Della Torre, Essere fuori luogo, Roma 1996). .
Ecco perché la terra stessa e i cieli, come spazio cosmico ed onnicomprensivo della vita, possono, provvisoriamente, essere patria ospitale per l’uomo e mirabile opera delle Sue mani per Dio; e, al tempo stesso, mai diventare, per l’uno e per l’Altro, patria e opera definitiva. Perché si manifestino tali dovranno essere "nuovi cieli e nuova terra" (Is 65, 17).
Ecco perché, se una terra è patria, lo è in quanto, come Abramo, la si deve abbandonare (Gn 12, 1) o, in quanto perduta, dall’esilio la si deve cantare (Salmo 137). Se viene presentata come luogo di riposo stabile e di definitiva riconciliazione, è tale sempre e solo in veste di "terra promessa", di "Gerusalemme sognata" (Zac 8).. Finchè resta meta dell’Esodo "Canaan stilla latte e miele" (Es 33, 3); quando diventa storico possesso, si trasforma in luogo di oppressione, di contesa, di ingiustizia, di peccato (Gdc 2). Il suo statuto è l’instabilità, la sua caratteristica il poter essere perduta. Tanto che per i profeti dell’esilio il vero Israele non è quello rimasto in patria, ma il piccolo resto dei deportati che col suo ritorno consentirà al popolo di rinascere alla salvezza (Ger 24)
Così è anche per i discepoli del Cristo, che lasciano la Palestina in missione verso le Genti, nella convinzione che il loro cammino non si deve fermare lì, come in un nuovo luogo di radicamento, ma di lì deve passare per andare oltre, per annunciare, dovunque e comunque, la prossimità del Regno, per radicare dovunque lo spirito operoso dell’ attesa (Mt 28, 18-20)..
Dalla prima missione dei suoi, limitata "alle pecore perdute della casa di Isarele" (Mt 10, 3.), Gesù suggerisce costume da pellegrino, non da emigrante; e chiede la più assoluta disponibilità all’ andare, che non sarà finito "prima che venga il Figlio dell’uomo" (10, 23), che obbliga a "lasciare tutto" (Mc 10,21) per seguire uno che "non ha dove posare il capo" (Lc 9, 58). Negli Atti degli Apostoli e in Paolo il viaggio è motivo dominante, capace di rendere provvisorio e dialettico ogni più riuscito radicamento ecclesiale del cristianesimo, di sfidarci ad "essere nel mondo ma non del mondo" (Gv 17); a vivere insieme il "gia" e il " non ancora" della salvezza (Rom 13). Qui, del resto, l’uomo e Dio stanno sotto il segno dell’incarnazione, della croce e della resurrezione, che non sono un rassicurante prendere posto di Dio là dove noi lo collocheremmo, ma un continuo migrare, un radicale gioco allo spiazzamento, uno sconvolgente processo di spogliazione, che conclude con l’ascesa al Padre del Crocefisso Risorto (Gv 20, 17), con l’associazione al trono dell’"agnello sgozzato" (Ap 5, 13), vale a dire con la più imprevedibile e sconvolgente trasformazione dell’immagine, del nome e dell’essere di Dio, che la storia del pensiero religioso conosca.
Se non ora, quando?
Il che, come è assolutamente evidente, vale anche per il tempo. Non c’è un tempo biblico che possa reggere da solo la storia del dialogo sempre aperto dell’uomo e di Dio. Non lo regge il tempo del mito, per quanto eternamente ordinato nei sette giorni canonici, in perfetto equilibrio di bene. Esso è costretto a coniugarsi come tempo storico, a misurarsi con l’errore e con l’erranza, con la schiavitù e con la liberazione, con la promessa di salvazione e col suo, sempre imperfetto, compimento. Il sabato cosmico di Genesi 1, segnato dal riposo di Dio, si duplica così nel sabato storico dell’Esodo, segnato dal riposo dello schiavo (Dt 5, 12-15) e si moltiplica poi in cicli settennali, scanditi da anni giubilari riparatori e restauratori, anni fuori serie.
Un ottavo giorno escatologico, eccezionale, unico, definitivo e sempre ancora a venire,"il giorno di Dio", diventa così, fin dall’inizio, necessario, perché la ripetizione settennale non si chiuda su se stessa, perché la restaurazione giubilare della giustizia promessa non resti, almeno nella speranza, una formula vuota senza vero esito e possibilità di realizzazione. La verità del sabato, genesiaco od esodico, non può nei sabati delle nostre settimane realizzarsi, se questi non si aprono all’irruzione del Regno, se il tempo del mito e della storia non sanno in sè ospitare il tempo della realtà ultima, oltre che come attesa anche come carità risanatrice, liberatrice e anticipatrice.
È la rivendicazione che Gesù fa per il proprio tempo e per quello dei suoi, vale a dire per il nostro: quella di essere un tempo capace di portare a realizzazione la duplice pienezza del sabato, la pienezza cosmica e quella storica (Mc 2, 23 – 3, 5). Ma è una rivendicazione che già faceva per sé l’antico scrittore biblico quando invitava ogni figlio di Israele a sentirsi compartecipe dell’Esodo, a leggerne la storia di liberazione e di grazia come la propria storia, l’esperienza di salvezza come la propria esperienza e, così facendo, rilanciava il suo presente non solo verso la ricapitolazione del passato, ma anche verso l’anticipazione del futuro (Dt 26, 1-10).
Proprio come lo spazio anche il tempo nella Bibbia non è mai chiuso nell’ordine proprio del mito, della favola o della storia, ma continuamente passa dall’uno all’altro, oltre i limiti dell’uno e dell’altro in un trascorrere continuo. È un passato sempre presente, un presente sempre futuro e un futuro intriso di memoria, carico di tutto ciò che è stato; portatore, insieme, di libertà creativa assoluta e di infinita e paziente capacità riparatrice.
Il tempo biblico è il tempo dell’uomo e del Dio vivente, non l’eterna staticità dell’essere, ripiegato sulla propria immobilità impassibile, ma la tenace fedeltà alla promessa, tesa allo spasimo per non perdere nessuna occasione di pietà e di amore, per conservare traccia passionale e memoria di ogni sfumatura della propria avventura di relazione. Il tempo della Bibbia è il tempo che si raccoglie e si dipana nel racconto della Bibbia, nel suo crescere continuo, nel suo mescolarsi di esperienze e di linguaggi, nel suo aprirsi e chiudersi rinviando oltre se stessa, nel suo vietarsi di darci altro nome e altro volto di Dio, altro luogo e altro tempo, altra causa e altro fine, altra parola ed altra speranza che non siano quelle e quelli dell’uomo che soffre e alla sofferenza non s’arrende, vale a dire, "non sa – col poeta – resistere, al Suo, non esistere" (Giorgio Caproni).
Aldo Bodrato