La politica perduta

I parte - Crisi della modernità in politica

All’inizio del dicembre scorso, Marco Revelli, presso la sede del Parco del Po a Casale Monferrato, in un dibattito conferenza presentava il suo ultimo libro, M. Revelli, La politica perduta, Einaudi, 2003, di fronte ad un pubblico attento, che, dopo aver ascoltato la relazione dell’autore, ha dato vita ad un vivace dibattito. Parlerò del libro e della serata in due puntate di appunti di viaggio, all’inizio di questo nuovo anno, il quarto per la rubrica.

Presentazione. Il moderatore dell’incontro rivolgeva a Revelli una domanda ampia e precisa. Riferirò in forma diretta sia pure sintetizzando alcuni passaggi ed assumendomi la responsabilità di eventuali alterazioni del pensiero dell’autore. Nel tuo precedente libro, Oltre il Novecento, Einaudi, 2001, affermavi che ogni finalità, inizialmente positiva, del secolo appena trascorso, si era trasformata nel suo contrario. L’occidente, che voleva salvaguardare la democrazia contro ogni tentativo di imperialismo, è caduto in due guerre mondiali di ampia distruttività. L’URSS, che, con la sua posizione alternativa alle democrazie occidentali, voleva dare all’Europa ed al mondo una giustizia più vera, è caduta in forme altrettanto gravi di oppressione e lacerazioni. Altri esempi confortavano nel libro la tua tesi. Qual è oggi l’analisi e l’ispirazione che guida il tuo nuovo libro La politica perduta?

Marco Revelli. E’ fondamentale per chi scrive un libro avere un confronto col pubblico per verificare la plausibilità delle sue tesi. Per questo vi ringrazio dell’occasione che mi offrite. Nonostante il titolo, il libro precedente era un’analisi del ‘900. In questo nuovo testo compio un passo avanti nel nostro secolo. Il secolo scorso, il ‘900 appunto, ci ha lasciato un’eredità non piacevole. Dopo la fine delle ideologie, si era affermato che sarebbe subentrata una fase di relativa pace ed invece la politica ha prodotto l’esatto opposto di quanto si era proposta. Ha creato, cioè, una violenza ancora maggiore. Non è l‘assenza della politica la causa dei tragici conflitti di questi primi anni del secolo attuale, ma la forma e la modalità della politica stessa.

Non è la crisi di una politica temporanea, ma di un modello di politica che viene da lontano, ben prima del ‘900, sin dall’inizio del ‘500 e dal ‘600, da Machiavelli ed Hobbes per citare i nomi più rappresentativi. E’ la crisi della modernità in politica. Gli aspetti generatori di crisi di quella politica, tuttora imperante, sono innanzi tutto la pretesa di imporre un ordine costruito, artificiale, prodotto attraverso l’uso della potenza e l’utilizzo della violenza. La politica della modernità e della contemporaneità vive sull’illusione che si possa creare il bene controllando monopolisticamente il male, vale a dire con la forza concentrata nelle mani del sovrano, sulla vana speranza che si possa dare ordine alla guerra di tutti contro tutti con la stessa arma della guerra, che si riesca a creare pace attraverso l’imposizione di patti.

Non voglio disprezzare la modernità. Essa è anche la lunga marcia verso forme di democrazia precedentemente sconosciute, l’affermazione del valore delle leggi, della sottomissione del sovrano alle leggi, ma questo oggi non basta.

Il libro biblico di Giobbe ci dà uno spunto illuminante per capire meglio. Parlo per analogia, il piano biblico infatti e quello storico sono distinti e diversi. Giobbe si scaglia contro Dio perché è afflitto dal male fisico, individuale, sociale e storico. Rinfaccia al Creatore che i buoni soffrono ed i malvagi invece godono. Per Giobbe, come per gli antichi, il male era indecifrabile, era un mistero. Il Leviatano, lo Stato, era la potenza superiore ad ogni altra potenza sulla terra, era l’opposto di Dio. In quanto mistero, il male per Giobbe è l’occasione di scontro, di incomprensione e poi di comprensione con Dio, è dialettica senza fine per trovare una modalità concordata.

Invece i moderni hanno preteso e pretendono di spiegare il male, di risolvere il problema del male, che da mistero viene trasformato in strumento valido per raggiungere un preteso risultato positivo. Nelle persone umane, secondo Hobbes, c’è la facoltà di uccidere e quindi queste delegano allo Stato parte del loro potere di sopraffazione affinché lo Stato possa imporre l’ordine generale. L’illusione sta nella pretesa di Hobbes e dei moderni e dei contemporanei, di poter dominare il male con il male per produrre il bene. Ma dopo il ‘900 questo modello non funziona più, è impraticabile, sia perché la violenza di oggi non è più controllabile a causa dell’avanzato sviluppo della tecnologia che ha dato agli Stati ed ai singoli la possibilità della distruzione totale; sia perché il cuore nero del ‘900, Auschwitz ed Hiroshima, ha realizzato la capacità di distruzione totale, mettendo in evidenza la fragilità antropologica del genere umano, come diceva Ernesto Balducci, che può distruggere se stesso; sia infine perché la globalizzazione, con l’unificazione dello spazio, con l’annullamento del potere delle nazioni che garantivano un ordine al loro interno ed esportavano il male all’esterno con il conflitto verso i nemici, non riesce più a creare ordine all’esterno con la forza, perché questa si riversa immediatamente all’interno. Gli Stati Uniti hanno tentato di bloccare il terrorismo con la guerra, ma si sono ritrovati in casa la guerra sotto forma di insicurezza crescente, di minacce terroristiche sempre maggiori. Quella forma di politica, invece di ridurre la violenza, la aumenta, creando disordine all’esterno ed all’interno, cioè in ogni dove.

A questo punto due sono le strade possibili. La prima è quella di rendere la politica moderna e contemporanea più efficiente sulla stessa linea, producendo un surplus di potenza. E’ la scelta che hanno fatto i leaders globali, ma, come abbiamo visto, questo comportamento è controproducente e crea sempre maggior violenza invece di gestirla. E’ la politica perdente.

L’altra via possibile è quella di rompere quel modello, ricercando un nuovo modo di fare politica.

Di questo secondo aspetto, costruttivo, tratterò nei prossimi appunti. (1. continua)

(1 gennaio 2004)

Mario Arnoldi