Viaggio d’estate

Quattro amici al bar della scuola. Quattro colleghi, due coppie. Andavamo in bicicletta verso il nostro istituto ogni giorno dell’anno, estate e inverno, il mattino presto per evitare il grande traffico. Non abitavamo nella stessa zona della città, ma spesso ci s’incontrava nell’ultimo tratto del percorso. A volte facevamo insieme anche il ritorno, dopo le lezioni. Diventammo evidentemente amici.

A giugno, quando stavano finendo le lezioni e gli impegni degli esami non ci avrebbero occupati oltre la metà di luglio, ci venne spontaneo chiederci dove saremmo andati in vacanza. Una specie di follia, tutto sommato blanda e simpatica, ci fece dire a tempo: andremo in Grecia in bicicletta. Ometto i preparativi, per altro immaginabili. A metà luglio le biciclette, adeguatamente attrezzate di cambi e di tende sul piccolo bagagliaio posteriore, erano con noi, o noi con loro, sul treno per Ancona, poi sul traghetto per Patrasso ed infine sul pullman per Atene. E lì cominciò l’avventura.

Consiglio a chiunque di passeggiare in bici per Atene sotto il sole di fine luglio e d’inizio agosto. Raggiungevamo i musei in pochi minuti, arrancavamo, un po’ faticosamente in verità, per raggiungere l’Acropoli, poi in compenso scendevamo velocemente per le vie della plaka per giungere all’Agorà, il cuore antico della vita dei greci. I ricordi dei nostri progenitori, la loro cultura, ci pervadeva. E dalla bici ci lanciavamo frasi brevi che ricordavano quella saggezza che trasformò l’occidente. La Grecia vinta trasformò a sua volta i vincitori, cioè i romani, i nostri genitori, che sapevano viaggiare e fare di conto, ma nel pensiero erano meno coltivati. Fu vera gloria? Ci moderavamo nel dialogare pedalando, perché ogni tanto rischiavamo di investire un passeggero od un turista tradizionale, cioè tutti gli altri. La sera raggiungevamo in mezz’ora il festival permanente del vino a sud est di Atene, dove, pagando all’ingresso il solo bicchiere - ce ne sono di tre dimensioni secondo le previsioni di tenuta del visitatore - puoi assaggiare all’interno ogni tipo di vino greco, dai più resinati ai più leggeri, dai bianchi ai rosé ed ai rossi, e tutti sono eccezionali.

Visitata Atene, dopo discussioni interminabili difficilmente riassumibili, eravamo con le bici sul traghetto verso le Cicladi centrali nella direzione di Santorini, che secondo la maggioranza di noi era l’isola che più ci avrebbe fatto godere il contatto con la natura e con l’antichità. Ed il godimento ci fu. Arrivammo l’ora del tramonto all’interno di una muraglia circolare, fatta di lava di colore nero e rosso, dell’altezza di duecento o trecento metri, che cadeva a picco sul mare attorno a noi ed il nostro battello. Quella è Santorini! E’ la parte rimasta sopra il livello del mare di un cratere antico, del diametro di venti chilometri, al centro del quale due isolette, vulcaniche pur esse, emerse nel XVIII secolo, sono lì e danno l’impressione di volersi rituffare una volta o l’altra nel fondo del mare. Il cerchio della muraglia che costituisce l’isola non è completo, manca di un largo tratto ad occidente e da quell’apertura il sole al tramonto mandava i suoi riflessi sulla parete orientale, facendo esplodere mille riflessi dalla pietra nera e rossa, ed in cima alla muraglia si appoggiavano le case a gruppi, le città di Thira ed Ia, e sembravano piccoli cubi bianchi che spiccavano sul rosso della lava e del tramonto. Scesi dal battello, pedalammo con fatica accanto ai pullman, superando tornanti arditi verso la capitale, Thira. Una delle tante versioni della leggenda vuole che Santorini sia il resto della mitica Atlantide. Non so se questo sia vero. L’isola è senz’altro un luogo impareggiabile per il mare, il vento, la vista e lo splendore. La sensazione che accomunava me e gli amici era che stessimo raggiungendo qualcosa di primordiale, di non visto prima, di rigenerante. Se Atene ci aveva ricordato la polis, la democrazia, la cultura ed ahimè la schiavitù (antica ambivalenza dell’uomo!), Santorini ci stava ricordando una realtà più antica, più lontana nel tempo, più naturale.

Un accenno alla città di Thira, nel centro della parte alta dell’isola, bella nei suoi edifici tipici con le volte a botte, coi suoi templi, panorami memorabili, immortalati da sempre nelle immagini dell’isola, ma purtroppo un po’ caotica per la gente multicolore che si muove senza un ordine; un cenno ad Akrotiri, a sud ovest dell’isola, dove procedono con lena gli scavi di una città minoica, che fanno pensare che un tempo Santorini fosse unita a Creta; un cenno ancora alla spiaggia di Perissa, inevitabilmente nera, perché di sabbia vulcanica ed alle notti passate a contemplare la luna nel cielo tersissimo; per raccontare invece più dettagliatamente un fatto inaspettato: la sera gli abitanti dell’isola, i turisti, in macchina o in pullman (o in bici) s’incamminano verso il nord ovest dell’isola, ad Ia, come in una processione rituale, vanno verso un anfiteatro, all’interno dei resti di una fortezza veneziana, aperto sul mare, orientato ad occidente, per contemplare ancora una volta il sole che tramonta. Quel sole, che ha battuto tutto il giorno i corpi, discende nel mare, va a riposo e la gente, con un senso quasi di riconoscenza, si siede ed attende il suo lento calare dietro l’orizzonte dell’acqua e dell’isoletta vulcanica e, quando l’ultima striscia di sole si annulla in mare, scoppia un applauso unanime, fragoroso e commosso: è la Scala della natura e del sole. L’emozione della prima volta annebbia gli occhi di un velo umido e spegne in gola ogni sillaba di commento.

Il ritorno. L’immancabile errore di battello ci ha diviso. Chi voleva andare a Troia, per vedere quello che non c’è più delle origini prime della nostra civiltà. E’ forte il richiamo del racconto foscoliano del mendicante cieco, Omero, padre e simbolo della poesia, cha abbraccia ed interroga tra le rovine i caduti in guerra per raccontare le loro gesta e di quel grido d’onore ad Ettore, vinto, ma reso nobile dal sangue versato per la causa. Chi voleva puntare su Patmos, l’isola più alta del Dodecaneso, nella quale San Giovanni scrisse l’Apocalisse, luogo di sogno pur essa. Mi ritrovai con la mia compagna ad arrancare in bicicletta, 40 gradi, sul monte verso Cora ed il Monastero di S. Giovanni. Visione aerea da quel culmine di terra e di cielo sulle altre isole dell’Egeo. Mi venne dal cuore una frase azzardata: "da questo luogo anch’io scriverò l’Apocalisse". Sentii un colpetto sul fianco e la voce che mi diceva: "non essere blasfemo!". Programmammo di ritornare a Troia per riflettere sul nostro passato ed a Patmos, l’isola in cui il cielo, la terra, il mare ed il sole suggeriscono pensieri di un altro mondo possibile.

(15 agosto 2001)

Mario Arnoldi