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CHI SI RICORDA IL ’68?

Due libri ci ricordano la "mitica" data di una "rivoluzione"

di Gino Tartarelli

A riportarci indietro nel tempo, ai ricordi di quell’epoca che ormai non c’è più, sono due libri che si sono rincorsi nell’uscita in libreria. Il primo, "Trent’anni dopo. Due saggi sul Sessantotto" di Mario Arnoldi e Giuseppe Rinaldi (edizioni dell’Orso 1999, pp. 148, £. 25.000), raccoglie le relazioni tenute nel gennaio 1998, nell’ambito di tre seminari dall’omonimo titolo promossi dall’Associazione "Amici si Salvatore Mattu" e dall’Istituto storico della Resistenza entrambi di Alessandria; il secondo volume di cui vogliamo parlarvi è "Il mio ‘68" scritto dalla Comunità dell’Isolotto di Firenze (edizioni Centolibro 2000, pp. 144, £. 20.000).

Spesso e volentieri chi ha fatto il ’68, oggi assume due tipi di atteggiamento, due opposti comportamenti: il nostalgico, che vive come mummificato in quell’epoca, oppure, al contrario, c’è chi cerca di rimuovere quel passato giudicandolo pieno di errori. Ma è indubbio che quella data segnò l’inizio della contestazione studentesca in Francia, prima, esplodendo via via a Est, come ad Ovest dell’Europa, in Spagna come in Italia, in Germania come in Vietnam e negli Stati Uniti.

Nel primo libro citato gli autori, due professori di liceo, tracciano due punti di vista di quell’epoca. Giuseppe Rinaldi tratta della situazione internazionale del Sessantotto, considerato come fenomeno globale di reazione, talvolta non del tutto consapevole, da parte delle giovani generazioni dei primi "due mondi", allargatosi poi anche ad altri gruppi sociali e culturali, ma anche alla politica di quell’epoca dove vigeva l’imposizione della cosìddetta Guerra fredda. Per l’autore esisterebbe una sorta di filo conduttore tra le vicende della Seconda Guerra mondiale e quelle del Sessantotto: per esempio rispetto alla continuazione dell’antifascismo, oppure all’aspro confronto tra le due correnti ideologiche risultate vincitrici dal conflitto mondiale, fino ad arrivare alla loro critica e revisione interna. Il lavoro di Rinaldi, lungo e difficoltoso, vuole essere un timido tentativo di definizione di questa mitica data ed altrettanto mitica epoca, vuole diventare oggetto di ricerca e base attorno al quale realizzare ulteriori approfondimenti specifici. Nel libro egli constata, salvo eccezioni lodevoli, come ci sia una sostanziale rimozione del Sessantotto come materia di studio dei sociologi e degli storici. "Soprattutto - egli afferma - dopo la fine della Guerra fredda e il crollo dei regimi comunisti, se da un lato hanno decisamente aperto nuove possibilità interpretative, hanno anche contribuito al confinamento del Sessantotto tra le amene curiosità del costume degli anni Sessanta".

Mario Arnoldi, nella seconda parte dello stesso volume, ci parla invece del dissenso cattolico in Italia tra gli anni ’60 e nel ’68. Nell’introduzione i riferimenti sono ai fermenti degli anni ’50, con figure di sacerdoti come don Primo Mazzolari, i preti operai, le prime esperienze pastorali di don Lorenzo Milani a Prato, la figura di La Pira e Balducci a Firenze, il pensiero di Maritain, Mounier, e Teilhard de Chardin, di teologi innovatori rispetto alle posizioni del Vaticano. In quegli anni nascono riviste come "Il Gallo" a Genova, "Questitalia" a Venezia e "Testimonianze" a Firenze. Ma l’inizio del vero dissenso cattolico prende slancio, ci dice Arnoldi, dal pontificato di Giovanni XXIII e dal Concilio Vaticano II, nei due filoni principali: quello politico e quello ecclesiale. Significativi a questo proposito sono stati gli incontri e convegni tra l’intellighentia cattolica e quella marxista che daranno vita a collaborazione di base ed alla contestazione della costellazione dei gruppi ecclesiali. "Le richiesta fondamentali dei due filoni del dissenso cattolico in Italia – dice Arnoldi – furono quelle di un dialogo maggiore con le altre forze progressiste di allora e quelle di una Chiesa più vicina ai poveri, una chiesa povera per i poveri". Si citano fatti quali l’occupazione dell’Università Cattolica e il caso della comunità parrocchiale dell’Isolotto di Firenze, l’esperienza della Scuola di Barbiana di don Milani, si fa accenno all’evoluzione della contestazione ecclesiale degli anni ’70 con la nascita delle Comunità di Base per i cattolici dissenzienti, e dei Cristiani per il Socialismo di carattere più politico.

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Un altro libro ci riporta velocemente indietro di ben 32 anni, sul filo della memoria dei fatti del ’68. Si tratta di "Il mio ‘68", scritto dalla Comunità dell’Isolotto di Firenze con la collaborazione del Comune di Firenze, della Biblioteca Isolotto "Luciano Gori" e della circoscrizione Quartiere 4.

L’Isolotto era una sorta di "quartiere dormitorio" periferico di Firenze, nato negli anni Sessanta, ma mancante di tutti i servizi essenziali. Proprio qui, in una zona dove mancano i mezzi di trasporto, le scuole, l’ambulatorio medico, la farmacia, il mercato e la chiesa, nasce tra la gente un’incredibile solidarietà. "Il territorio che doveva essere quasi anti-fabbrica – si legge nella presentazione del libro - nel senso che doveva servire a omologare la gente nella cultura dell’individualismo egoista e a ghettizzare nella fabbrica la conflittualità sociale, si legò invece proprio al mondo operaio. Si creò un’alleanza tra fabbrica e territorio che mise paura". Ecco dunque che nasce un fecondo intreccio tra il soggetto di base, cioè il popolo, la gente, dell’Isolotto e la realtà ecclesiale di quel quartiere, cioè la parrocchia. Perché bisognava "ricordare – scrive Lidia Menapace nella prefazione – che il fulcro di quel Sessantotto – come di tutti – fu una profonda esigenza di verità e di autenticità, ripassare, mettere al vaglio ogni tratto, comportamento, parola, idea ricevuta e quindi l’amministrazione della giustizia penale e di quella distributiva per lo Stato, l’amministrazione del messaggio verso tutti e tutte e la pratica della povertà da parte di chi la predicava come beatitudine. Conseguenza fu che la fede cominciò ad avere eco in molte coscienze e la critica alla religione come potere, ricchezza, autoritarismo, passività, fu gridata e certo si radicò". Ecco dunque una comunità che si prese in carico i problemi della gente, che s’impegnò concretamente nel terremoto del Belice, inviando dei propri volontari, così come fece per il Vietnam e per i negri dell’America; si solidarizzava con l’occupazione "di riflessione e di preghiera" del duomo di Parma per, essi dicono, "una Chiesa povera e libera dall’autoritarismo e dalla collusione con il potere". Per queste cause si fecero assemblee, si celebrarono messe in piazza, con liturgie che proponevano "i temi sia della penitenza per le colpe dei cristiani nella guerra in Vietnam sia della pace come imperativo evangelico". Questi stessi temi vennero espressi per scritto con una lettera al papa per la Pasqua ’67, assieme ad una veglia cittadina di 24 ore nel maggio e la veglia natalizia dello stesso anno. Nelle vicende di quegli anni, raccontate nel libro, questa comunità fiorentina si pone in contrapposizione netta con la gerarchia ecclesiale, tanto che il cardinale Florit indirizzò al parroco don Enzo Mazzi una lettera in cui si intimava "o ritratti o ti dimetti". Ma un gruppo di 93 sacerdoti solidarizzò con don Mazzi e il 31 ottobre 1968 si invitava il vescovo a recarsi all’Isolotto. "Ci chiamavamo "comunità parrocchiale" –scrive Enzo Mazzi, ex parroco dell’Isolotto di Firenze, espulso dalla parrocchia stessa, oggi animatore dell’omonima comunità di base - e tentavamo in tutti i modi di esserlo, ma ogni volta sbattevamo contro l’evidenza: una vera comunità non può esistere finché al centro c’è uno che ha tutto il potere e non per volontà sua ma per "volontà di Cristo" e per seconda natura, quella sacerdotale, di cui non potrà mai spogliarsi". Gli scritti e le testimonianze, raccolti in questo volume, fanno capire come, dalla vera e propria rivoluzione sociale e culturale che investiva ogni aspetto della società di quell’epoca, non si poteva prescindere l’aspetto ecclesiale. Per rendere parola viva il Vangelo, è necessario portarlo proprio nei quartieri a rischio, tra la gente comune. E qui, all’Isolotto, è successo proprio questo: "una corale presa di parola – scrive Menapace nella prefazione - la prima infrazione di una ritualità separata e passiva per i laici: qui ciascuno che avesse da dire qualcosa sul tema posto alla riflessione dei presenti da una precedente decisione di gruppo poteva dire in breve il suo messaggio".


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