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Sergio Barletta

Così parlò Zaratustra

Gianfranco Fornasiero Editore, Roma 1996

Barletta, bolognese di nascita (1934) ma astigiano d’adozione, si è trasferito improvvisamente a Roma alla fine degli anni cinquanta, appena conseguito il diploma di ragioniere, per sottrarsi all’incombente minaccia di diventare un bancario a vita, mettendosi alla ricerca di un suo percorso artistico-culturale nel campo della grafica e della pittura, venuto su dal profondo delle sue più profonde e sofferte aspirazioni di adolescente.

In quarant’anni di militanza in cui pensiero prepolitico e scelte professionali lo hanno blindato contro i rischi di un successo (facile, date le sue straordinarie risorse) che gli sarebbe costato la rinuncia alla libertà interiore, l’appiattimento sulle esigenze del mercato e la soggezione all’etica del padrino, è rimasto quel ragazzo esile, mite e irremovibile che avevo conosciuto ai tempi della GIAC nei tempi roventi di Carretto, Mario Rossi e don Paoli, quando la crisi del ‘52-53 faceva esplodere in varie direzioni le schegge del monolito cattolico italiano, che cominciava a incrinarsi. Un’esplosione che preannunciò - insperabilmente - i tempi del Concilio.

Come altri, Barletta aveva già vissuto con quindici anni di anticipo la contestazione sessantottina ed era in grado ormai di valutarne la ricchezza, le potenzialità, le ingenuità, i pericoli sommersi e le devianze manifeste, fino a prevederne puntualmente l’involuzione nelle dure vignette di Azione Sociale.

Questo grande volume, fuori commercio (peccato), di "159 disegni sulla vita e il tempo che passa", per l’aspetto editoriale si presenta come un libro-strenna ma è tutt’altro, se per libro-strenna s’intende una cosa che non dice nulla, ma quel nulla lo dice così bene da farlo sembrare un’opera d’arte. Lasciato sul tavolino del salotto e scambiato per un bicchierino di rosolio, arriva allo stomaco come una sorsata di alcol puro o una cucchiaiata di salcanale: dal suo recente viaggio-pellegrinaggio in India, l’Autore ha riportato la scarmigliata immagine del guru-stilita che riempie il libro di sé e delle proprie massime eterne e attualissime, irriverenti e perentorie come una mattonata in una vetrina di cristalli. Aforismi e fulminee riflessioni e citazioni lampeggiano con grafica principesca nel bianco "inutile" di pagine cinquecentesche. Le cose più recenti che avevo visto erano una serie di quadri-collage dal titolo "Flash of the flesh" (bagliori di carne) esposta a Roma e a New York (Molica, GuidArte, 1991), una reprimenda profetica sulla pubblicità erotomaniaca. La vena profetica prosegue, con questo "Zarathustra", poiché Barletta è profeta e non teologo, e bada all’effetto-conversione del lettore e non all’architettura formale di un enunciato teorico. La sua scelta evangelica totalmente laica si muove irriguardosa tra ribellioni luterane e raffinate sensibilità umanistiche, fiuta e smaschera luoghi comuni e acquiescenze perbenistiche, scortica e denuncia la piaga fondamentale dell’occidente cristiano: aver sostituito con il principio gerarchico la proposta spirituale dell’amore universale e interiore del rabbi-guru di Nazaret. Saettato con frasi taglienti, apparentemente contraddittorie, aggressive che si completano e spiegano a vicenda nello spirito del lettore che accetta di farsi coinvolgere, il messaggio di Sergio Barletta è un saggio di come una vita intera possa essere testimonianza di amore-odio alla chiesa-madre, in un rapporto insolubile e doloroso. Forse mai intesi come tale, la biografia e l’itinerario artistico di Barletta non possono che essere decifrati, a posteriori, come una rara e coerente risposta ad un compito assunto dalle mani del Maestro, compito a cui gli è stato impossibile sottrarsi, poiché "non siete stati voi a scegliermi: io ho scelto voi, e vi ho messi in strada perché camminiate e portiate frutto" e "la parola deI Signore non può tornare indietro infruttuosa" Mai.


Gianfranco Monaca


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