Massimiliamo Marinelli ETICHE E COMITATI DI BIOETICA di Ausilia Riggi Pignata
ed. Salcom, Brezzo di Bedere 1991
Questo libretto, corredato di una buona bibliografia, sia pure unilaterale, offre in modo semplice e forse troppo schematico, uno strumento di conoscenza quanto mai opportuno per riflettere sulla bioetica.
È ormai diffusa la consapevolezza che non bastano più la formazione e l’informazione alla quale siamo stati avviati finora circa i comportamenti etici. L’Autore parte dal presupposto che l’etica, a causa del processo di secolarizzazione, oggi non trova più il suo unico fondamento religioso; ha un orientamento laico, affidandosi alla ragione e al sentimento o all’intuizione. Egli argomenta così nel contrapporsi a questa tendenza: la morale non può prescindere dal criterio di valutazione di ciò che è bene e ciò che è male. Detto in altre parole, bisogna tornare ancora alla filosofia morale, senza indulgere ad atteggiamenti relativistici, a tentazioni di norme pragmatiche non riferibili ad una verità oggettiva che assicuri sul fine che permea la realtà del mondo e dell’uomo. Non si può scoprire il senso dell’esistenza umana, se non guardando all’essenza di ciò che è l’umano.
Giunto a questo nodo, l’A. ricorre all’argomento della legge naturale, la quale, secondo lui, non può fare a meno di una teoria, di un principio che permetta il salto dalla pure esperienza o descrizione dell’azione nella sua fattualità, alla norma che la rende morale. La filosofia morale "non crea la norma morale, ma la mette in luce, la scopre". Ciò significa che il bene non scaturisce (kantianamente) dalla soggettività, ma "è fine e valore reale, oggettivo per l’uomo", perché impresso da Dio nella stessa Natura.
Non è da pensare, da quanto detto, che l’A. resti ancorato ad una concezione ontologica che non lasci spazio a prospettive di ricerca. Certamente prende le distanze da tutte le etiche laiche, da quella nihilista a quella dei "non-cognitivisti", i quali negherebbero la possibilità di formulare giudizi di valore e pretenderebbero un’etica senza verità. Ma il suo obiettivo è quello di collegare la prassi ad un impegno di riflessione etico-filosofica che - pur partendo da una solida impostazione tradizionale e negando che ci possa essere una "nuova etica" - non riposi sulle certezze del passato e si interroghi sulle nuove questioni connesse con la nuova scienza, la Bioetica.
L’A. offre una breve sintesi della storia di questa nuova area culturale. Il termine "bioetica" è stato coniato da Renselaer Van Potter nel 1970 e va riferito al fatto nuovo dello sviluppo delle biotecnologie. La bioetica "rappresenta il tentativo di sanare la separazione tra scienza della natura (biologia) e scienza dello spirito (etica)": nell’orizzonte di chi guarda, non solo a specifici progressi terapeutici, ma anche al miglioramento di tutto l’ "ecosistema". Nel 1971 veniva fondato l’Istituto di Etica "Kennedy" a Washington, con l’intento di promuovere una "antropologia morale". Nel 1983 si costruiva a Lovanio, all’interno della Università Cattolica il "Centro di studi bioetici". Anche in Italia nel 1985 è stata istituita la prima cattedra di Bioetica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.
Sia queste istituzioni, sia la formazione dei vari Comitati etici, seguono un modello pedagogico, consultivo, decisionale e di indirizzo, che non esaurisce né assorbe in sé il codice ontologico di cui resta investito ogni studioso interessato alla ricerca, ogni operatore nel campo medico, ogni diretto interessato. Ed è legittimo porsi la domanda fino a che punto la filosofia morale da una parte e la scienza e la tecnologia dall’altra, possano e debbano talvolta rispettare certi confini, talaltra oltrepassarli.
Non mi pare che il testo, il quale affronta queste e simili altre questioni, approfondisca gli argomenti. Né potrebbe farlo, dati i limiti della breve trattazione. È certo però che la sua lettura offre una visione complessiva della vasta tematica fino ad ieri inesistente: l’ingegneria genetica (per la quale, però, c’è da dire che molti scottanti problemi non sono contemplati), la terapia genica, la sperimentazione terapeutica e il necessario consenso di chi vi si assoggetta, i parametri per l’elaborazione dei principi a cui attenersi, la proposta dei Comitati etici a livello locale, ecc.
L’A. è preoccupato di sollecitare le coscienze a considerare la portata dei nuovi orizzonti aperti dalla bioetica. In un campo così nuovo e continuamente cangiante è facile cedere all’arbitrio, dimenticando che ci sono "precetti universali inscritti nel cuore di tutti gli uomini", al di là di tutte le innovazioni. Pone l’accento sul personalismo cristiano, che vede il valore "essenziale", "totale" della persona, usando sempre un linguaggio tutto improntato alla "verità della legge naturale".
Forse questa impostazione di fondo impedisce all’A. di fermarsi su considerazioni di sensibilità umana, relazionale e di condivisione. E resta il dubbio che, così, non venga dato il giusto rilievo alle difficoltà situazionali a cui i grandi principi rischiano di non saper dare una risposta. Chi, ad esempio, potrebbe trovare un criterio di scelta assoluto di fronte ad un ammalato terminale a cui si può alleviare il dolore con qualche farmaco ma col pericolo di accorciargli al vita’ Chi potrebbe essere così illuminato da non avere dubbi sulla possibilità di intervenire sul codice genetico dell’embrione per evitare un futuro handicap? I fari dei valori tradizionali devono restare accesi; ma la realtà di riferimento è così in divenire che il semplice ricorso ad un concetto di "legge naturale" rischia di diventare aporetico. Resta da definire in che cosa consista tale legge, poiché il concetto di natura è fluido e sconfina con quello di cultura (anziché contrapporvisi). Per evitare lo scadimento dell’etica nelle secche dei puri ragionamenti egoistici e utilitaristici, gli antichi valori vanno reinventati e riscritti senza cedimenti, è vero, ma anche con coraggiosa creatività.
Ma non è questo lo spirito in cui si muove questo pur sempre apprezzabile testo.