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Apriamo i cuori alla profezia



Data: 18 Luglio 2022
Autore: Gianfranco MONACA



Papa Francesco fin dall’inizio del suo
pontificato si è presentato come anticlericale.
Per gli storici l’anticlericalismo
è “una componente importante
della nostra storia” e “non vi è
ricerca sulla vita politica o religiosa dell’Italia
unita che possa prescinderne” (Pietro
Scoppola). A parte piccole differenze, la scoperta
recente della chiave di lettura del DNA
conferma l’unità dei viventi anche se il lavoro
continua perché le nostre conoscenze sulla
sua struttura sono aumentate, ma non sono
ancora complete. Ciò significa che tutte le forme
di organizzazione della nostra convivenza
sono fondate sulla prevalenza degli organismi
più adattabili ai cambiamenti dell’evoluzione.
Ma la meta a cui tende la spinta evolutiva a
cui non possiamo sottrarci è per ora sconosciuta:
è l’interrogativo a cui gli esseri pensanti,
per rispondervi, hanno elaborato i miti, le religioni,
le filosofie. I sistemi sociali sono più o
meno flessibili secondo la rigidità delle strutture
di connessione gerarchica che le regolano:
la prevalenza del “funzionariato” che garantisce
la stabilità dell’edificio determina l’arretramento
della “profezia” che deve esplorare
il terreno per proseguire il cammino evolutivo
della specie.
Il cammino è una questione di equilibrio:
se una gamba prevale sull’altra o si cade o si
zoppica.
Il 1° ottobre 2013 papa Francesco, in un colloquio
sul quotidiano la Repubblica con Eugenio
Scalfari, ha detto che bisogna “Ripartire
dal Concilio e aprire alla cultura moderna”.
“Il proselitismo - afferma il Pontefice -
è una solenne sciocchezza”. E, puntando poi
l’attenzione sul Vaticano dice: “La Santa Sede
è troppo Vaticano-centrica”. Ai seminaristi
di Ancona ha raccomandato recentemente di
leggere Dostoevskij e gli umanisti. “Diffidate
delle esperienze che portano a sterili intimismi,
degli spiritualismi appaganti, che sembrano
dare consolazione e invece portano a chiusure
e rigidità. I rigidi finiscono al ritualismo,
sempre”.
“I capi della Chiesa sono spesso stati narcisisti,
lusingati e malamente eccitati dai loro
cortigiani. La corte è la lebbra del Papato”
- dice Francesco. “In Curia ci sono talvolta dei
cortigiani - spiega - ma la Curia nel suo complesso
è un’altra cosa. È quella che negli eserciti
si chiama l’intendenza, gestisce i servizi
che servono alla Santa Sede. Però ha un difetto:
vede e cura gli interessi del Vaticano,
che sono ancora in gran parte, interessi temporali.
Questa visione Vaticano-centrica trascura
il mondo che ci circonda”.
Francesco parlava per la Chiesa del 2013 -
che nel 2018 era ancora così - e dovette imporre
un “cammino sinodale” ai vescovi recalcitranti
o timorosi, ma tocca ai laici fare l’esame
della parabola del fariseo e del pubblicano,
un testo altamente laico, “politico” ed ecumenico:
Disse ancora questa parabola per alcuni
che presumevano di esser giusti e disprezzavano
gli altri: “Due uomini salirono al
tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro
pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava
così tra sé: O Dio, ti ringrazio che
non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti,
adùlteri, e neppure come questo
pubblicano. Digiuno due volte la settimana
e pago le decime di quanto possiedo. Il
pubblicano invece, fermatosi a distanza,
non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo,
ma si batteva il petto dicendo: O Dio,
abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: que
dell’altro,
perché i grandi saranno abbassati fino a terra e
chi sa di essere a terra sarà sollevato ai primi posti”
(Luca 18, 9-14).
Il “funzionariato” è il peccato originale in ogni aspetto
della vita sociale, sotto forma di “carrierismo”. Si trova in
dosi massicce nel burocratismo, del “si fa così perché si è
sempre fatto così” nella scuola, nella sanità, nelle amministrazioni
pubbliche... anche nella scienza, quando le baronie
prevalgono sul merito della ricerca; e nella stessa magistratura
e in tutti gli eserciti. Persino nella politica, nel
sindacato, nel volontariato e nel welfare la nevrosi della
competizione si impadronisce della società “meritocratica”,
come se ci fosse un concorso a premi per il grembiule
più alla moda o per la tuta più elegante (... Preso un grembiule,
se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel
catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli
con il grembiule di cui si era cinto Giovanni 13, 3-5).
Il male assoluto non è la violenza, quella istintiva e individuale
per fame e sopravvivenza, ma quella organizzata,
istituzionalizzata e anonima, la guerra, sempre più sporca
comunque la si voglia battezzare. La guerra endemica (la
terza guerra mondiale “a pezzi”) è il peccato del mondo,
ma la radice è nella rigidità della politica e dell’informazione
che vede e cura gli interessi del Palazzo, che sono in
gran parte, interessi temporali e finanziari. Questa visione
piramidale e gerarchica trascura il mondo che ci circonda
e smaschera il “patriottismo”, come dice l’eterno Trilussa:
Chè quer covo d’assassini
che c’insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe li ladri de le Borse...
...
E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!
Il consiglio di Francesco ai seminaristi (“Leggete gli
umanisti”) pare adatto a tutti noi. Erasmo da Rotterdam
scriveva (nel 1518) a proposito di proselitismo e di rigore
fondamentalista e bellicista:
“Io, devo dire, non condivido mai la guerra: neppure
quella contro i Turchi. La religione cristiana sarebbe
messa davvero male, se la sua sopravvivenza dipendesse
unicamente da questi puntelli! Non ha senso
attendersi che, a partire da premesse ostili, le genti
sottomesse diventino buoni cristiani: ciò che si
conquista con la violenza, lo si perde nello stesso
modo” [...]. “Ma perché - sento dire - non dovremmo
poter sgozzare quelli che vengono a sgozzarci?”. A
costoro rispondo: “Vi sembra davvero così inaccettabile
che altri siano più crudeli di noi? Allora
perché non derubiamo chi ci deruba? E perché non
prendiamo a male parole uno per uno tutti quelli che
ci offendono? Perché non odiamo visceralmente tutti
quelli che ci odiano?”.
“Si vis pacem para bellum” è il mantra ripetuto fino alla
noia dall’insensato “patriota” della guerra a oltranza e della
distruzione totale giustificata come missione di pace e di
civiltà.
Erasmo è il compilatore di un’opera che, a mio parere,
è ancora straordinaria come gli Adagia. [...]
In un’Europa sconvolta dalle guerre e che si andava
sempre più profondamente dividendo sul piano religioso,
Erasmo ha combattuto per la pace tra i popoli.
Pace politica e, ancor prima, pace religiosa.
Eugenio Garin (1909 - 2004)
Come scrive Davide Canfora, “Il lavoro di Erasmo è forse
il più efficace anello di congiunzione tra tradizione e
modernità. Una sintesi non ovvia e non facile, che appare
assolutamente speculare allo spirito dei tempi in cui Erasmo
visse e dei tempi che seguirono alla sua lezione: tempi di
divisioni profonde e di spargimenti di sangue; tempi di
proibizioni e censure, di guerra mossa dall’ortodossia ai
libri cosiddetti nocivi e alla libera circolazione delle idee”.
Gli Adagia (proverbi e detti provenienti dalla cultura
classica, raccolti, commentati e interpretati da Erasmo)
trattano della pace in Europa nei suoi aspetti religiosi e
politici. Erasmo ha scritto sulla pace soprattutto dopo aver
visto, durante il suo viaggio in Italia, il Papa promuovere
la guerra. Nel frammento intitolato “Giulio escluso dal
cielo” c’è l’opposizione alla tendenza della Chiesa a
risolvere i conflitti con la guerra. Anche in un altro degli
Adagia, “I sileni di Alcibiade”, c’è un duro attacco alla
guerra. E nel “Dulce bellum inexpertis” si mettono in
evidenza le presunte bellezze della guerra da parte di
chi non l’ha mai conosciuta.
Erasmo ha contrapposto al “bellum” (la guerra) il
“verbum” (la parola), anzi il “sermo” (il discorso colloquiale)
cioè la trattativa, il dialogo.
Ma il “verbo” deve essere “incarnato”, altrimenti, come
dice papa Francesco: “Diffidate delle esperienze che portano
a sterili intimismi, degli spiritualismi appaganti, che
sembrano dare consolazione e invece portano a chiusure e
rigidità. I rigidi finiscono al ritualismo, sempre”.
La radice è sempre quella: dipende dal senso che diamo
alle parole.