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Il Natale in ospedale



Data: 24 Novembre 2020
Autore: Michele MESCHI



In questi giorni l’umanità affronta sfide
strazianti. La COVID-19 (COronaVIrus
Disease-19), malattia sostenuta dal virus
SARS-CoV-2 e identificata per la prima
volta il 31 dicembre 2019 dalle autorità
sanitarie della città di Wuhan, capoluogo della
provincia di Hubei in Cina, devasta il mondo
con milioni di contagi in Asia e in gran parte
del mondo occidentale.

Nel celebre film di Mario Monicelli, La grande
guerra, dopo la scena di un pesante attacco
militare in una grigia giornata del 1917, foriera
di gravi perdite, il sergente Barriferri grida
disperato al cielo: «Ma Cristo! Dove sei?». Il
cappellano, ferito e stanco, lo guarda intensamente
e ribatte, mesto: «È qua con noi, sergente.
Se è vero che ha trentatré anni, è dell’ottantaquattro».

È così. La peculiarità cristiana sta nella completa
assunzione, da parte del Padre, della natura
dei suoi figli, negli eventi gioiosi come in
quelli luttuosi.
In questo difficile Natale, di crisi sanitaria
ed economica, di divisione sociale; ferito dall’ombra
di attentati terroristici e gravato del
peso di un’incertezza sul futuro, Dio è inchiodato
alle nostre sofferenze e alle nostre paure,
alla nostra fragilità, al nostro quotidiano eroismo.

Dio oggi può essere maschio o femmina, può
venire al mondo nell’infermiera dell’ospedale
COVID. L’assistenza al malato si è strutturata,
sin dalle origini, come imprescindibile sostegno
alla vita attraverso le cure esercitate dalle
donne. Dall’archeologia dell’assistenza emerge
il dipanarsi di due definiti percorsi: la semplice,
banale «cura», inizialmente riservata alla
figura patriarcale del medico, e il più complesso
e articolato «prendersi cura», divenuto rapidamente
di pertinenza obbligata delle madri e
dunque dell’elemento femminile. Come ha
scritto Alessandra Salerno, «con l’avvento dell’era
cristiana crebbe l’attenzione verso il prossimo,
e le diaconesse favorirono per la prima
volta lo sviluppo dell’assistenza basata sulla
vocazione. Nel Medioevo tale ruolo si estese
anche alla figura maschile attraverso i monaci
dei conventi, e nello stesso periodo si assistette
alla nascita del termine infirmus, che designava
inizialmente una condizione di bisogno,
e poi arrivò a rappresentare il luogo in cui si
presta la cura (infirmarium), fino a riferirsi alla
professione infermieristica nello specifico».
È nell’800, con l’attività instancabile di Florence
Nightingale negli ospedali da campo durante
la guerra di Crimea, che viene rivoluzionata
«la visione dell’infermiere nella società;
che si impone all’assistenza l’utilizzo di un
metodo scientifico, nella necessità di adottare
per le cure un personale adeguatamente formato
e retribuito. Fu Florence Nightingale a istituire
le scuole infermieristiche presso l’Ospedale S.
Thomas di Londra, dove si svolsero le prime
lezioni sul piano teorico e clinico».
Dinanzi alla bufera che ci ha travolti dalla
fine del febbraio scorso, ci sono soprattutto
loro, infermieri e operatori socio-sanitari, a far
fronte a tanto dolore, a tanta paura, a tanta iniziale
impotenza. Loro ci insegnano qualcosa
di più della semplice, pur importantissima, assistenza
al malato. Ci danno una lezione sulla
società e sul valore del tempo, argomenti eterni
e multidimensionali su cui dovremmo continuamente
riflettere.

La società. Con la meticolosa attenzione agli
aspetti educativi e al counselling degli ammalati
e, in fondo, di tutti noi, ci suggeriscono
come sia questo il tempo propizio, perché la
società venga rifondata su modelli classici,
costituiti essenzialmente di interazione, di integrazione
e, al contempo, di limite. Certo, un kairòs di
immenso dolore, di vera inconsolabile strage, di lutti non
vissuti, di progressiva caduta di certezze in campo scientifico
e gestionale: ma senza dubbio un’occasione - da non
sprecare - per tornare a fare di termini come «insieme»,
«comunità», «comunione» il timone del nostro viaggio, tracciato
fra confronti e riflessioni, nel continuo scambio tra
identità personale e dimensione collettiva.
È il momento del «noi», scrive Massimo Recalcati: «Questo
virus è una figura sistemica della globalizzazione; non
conosce confini, stati, lingue, sovranità, infetta senza rispetto
per ruoli o gerarchie. La sua diffusione è senza frontiere,
pandemica appunto. Da qui nasce la necessità di edificare
confini e barriere protettive. [...] Se le guerre ci hanno insegnato
ad essere liberi sottraendoci la libertà e obbligandoci
a riconquistarla, il virus ci insegna invece che la libertà non
può essere vissuta senza il senso della solidarietà, che la
libertà scissa dalla solidarietà è puro arbitrio. Lo insegna,
paradossalmente, consegnandoci alle nostre case, costringendoci
a barricarci, a non toccarci, ad isolarci, confinandoci
in spazi chiusi. In questo modo ci obbliga a ribaltare la
nostra idea superficiale di libertà, mostrandoci che essa non
è una nostra proprietà, non esclude affatto il vincolo ma lo
suppone. La libertà non è liberazione dall’altro, ma è sempre
iscritta in un legame [...]. La lezione tremendissima del
virus ci introduce forzatamente nella porta stretta della fratellanza,
senza la quale libertà e uguaglianza sarebbero parole
monche. In questo strano e surreale isolamento noi stabiliamo
una inedita connessione con la vita del fratello sconosciuto
e con quella più ampia della polis. In questo modo
siamo davvero pienamente sociali, siamo davvero pienamente
liberi».

Il valore del tempo. Ce lo ricordiamo, il tempo dilatato a
dismisura nelle notti della pandemia? Il cartellino timbrato
alle ore più impensate, le occasioni rubate a sé stessi, ai
propri affetti, alle proprie famiglie? E la terribile paura di
essere inadeguati, di contrarre la malattia e - peggio - di
portarla a casa e di disseminarla ai propri cari, con un misto
di senso di colpa e di disperazione! Il personale di comparto
è madre e padre, figlio di genitori anziani. «La chiusura
delle scuole ha influito molto sulla vita dei genitori con figli
piccoli e dei relativi nonni. I disagi sono molti ma, anche in
questo caso, i tentativi delle scuole di proseguire un minimo
di didattica fuori dalle aule ha portato a sperimentare
sistemi di cooperazione inediti tra scuole e famiglie. Esperienze
salutari in un periodo storico dove genitori e insegnanti
sembrano essere spesso ai lati opposti di una barricata
[...] E guardando a una dimensione più intima e personale,
certamente c’è il rischio di uscire da questa fase di isolamento
con maggiori resistenze verso l’altro e timori sulle
forme di socialità. Gli anziani oggi stanno vivendo un momento
di ulteriore solitudine. Ma c’è anche qualche rovescio
della medaglia che potremmo valutare positivamente:
ad esempio l’azzeramento delle agende degli impegni ex
tra-scolastici dei nostri figli - spesso troppo fitte - oggi ci dà
l’opportunità di ripensare i loro e i nostri tempi assieme».
Tutto questo vivono, metabolizzano, coprono di dubbi e
certezze anche infermieri e operatori socio-sanitari, accanto
ai medici.

Ed è per questa vita, per questo ciclone di emozioni contrastanti,
di soddisfazioni e di sconfitte, di gioie e di dolori,
che dobbiamo dir loro grazie: per compiere gran parte del
lavoro di questi mesi, per farsi carico - in prima persona -
di tutte le fragilità di chi è colpito da un incubo mai visto.
Per farci capire che il nostro destino più vero, come dice
papa Francesco, «è essere trasformati dall’amore. Lungo il
cammino della storia, la luce che squarcia il buio ci rivela
che Dio è Padre e che la sua paziente fedeltà è più forte
delle tenebre. In questo consiste l’annuncio della notte di
Natale».

Levarsi al di sopra della propria condizione terrena, per
fondersi con un’entità superiore, è desiderio dell’uomo sin
dalla notte dei tempi: i greci parlavano di apothéosis, apoteosi,
per il riconoscimento dello status divino ad una figura
del mito. Toccò in sorte ad Eracle, la cui dimensione sovrafisica
fu accompagnata da Athena sul monte Olimpo, mentre
le spoglie bruciavano sulla pira, avvelenate dal sangue del
centauro Nesso. Nell’antica Roma, la divinizzazione del princeps,
spesso attuata a scopo politico dal suo successore, avveniva
simbolicamente attraverso il rogo funerario di un’immaginetta
di cera, esposta al pubblico per alcuni giorni.
Scrive il biblista Alberto Maggi: «Raggiungere il Signore
è stata anche la massima aspirazione di ogni persona religiosa:
salire e spiritualizzarsi, per fondersi misticamente con
il Dio invisibile. I potenti pensavano di raggiungere Dio e
di essere al pari di lui mediante il trionfo del proprio interesse,
l’accumulo delle ricchezze; gli uomini pii attraverso
l’accumulo delle preghiere». «Solo la follia di Dio (1 Cor
1,25) ha potuto spingere l’Altissimo, non solo a diventare
un uomo, ma addirittura a rimanerlo. Con la nascita di Gesù,
Dio non è più lo stesso e l’uomo nemmeno: è cambiato completamente
il rapporto tra Dio e gli esseri viventi e tra questi
e il loro Signore. Potenti e religiosi pensavano di raggiungere
la condizione divina, separandosi dagli altri: i primi
per dominarli, i secondi per essere di fulgido esempio.
Più il potente voleva salire e più sprofondava nelle tenebre,
nella profondità dell’abisso (Is 14,15), poiché più si allontanava
dai suoi simili, più diventava disumano. Più l’uomo
religioso si distaccava dagli altri per incontrare Dio, più
questi pareva allontanarsi, diventare irraggiungibile: poiché
chi si separa dagli uomini si separa dal Signore».
«Con il Natale si è capito perché: non bisogna salire per
incontrare il Signore, ma scendere, perché in Gesù Dio si è
fatto profondamente umano e si è messo al servizio di tutti.
Con Gesù Dio non dev’essere più cercato, ma semplicemente
accolto (Gv 1.12). Egli è il Dio con noi (Mt 1,23),
che chiede di andare, con lui e come lui, verso ogni persona.
Più si è umani, più si libera il divino che è già in noi».