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Redazionale del n° 3 (Marzo 2006)

Saremo gli ultimi a confessarci?

Tempo di Quaresima. Tempo di fraternità penitente e tempo opportuno per meditare sul nostro limite profondo, sul peccato. Parola obsoleta nella vita del cristiano, ormai, quanto, in parallelo, la stessa confessione-penitenza, sacramento essenziale ma oggi letteralmente abbandonato.

Non è facile tentare una riflessione al riguardo, nel contesto della domanda (poco retorica) sul futuro del cristianesimo e del messaggio cristiano: non facile, ma importante, e forse decisivo. Ricordando da subito come quel sacramento nacque nella chiesa dei primi secoli per manifestare visibilmente la riconciliazione con la comunità locale che è segno e garanzia della riconciliazione con Dio.

Anche se le motivazioni sono discusse, nessun cristiano intellettualmente onesto può negare che questo sacramento si trovi in estrema difficoltà. Divergono, appunto, solo le ipotesi di lettura del problema: a fronte di chi evidenzia il fatto che da tempo non si avverte più il senso del peccato perché il generalizzato permissivismo ci ha defraudati della cultura del limite, c’è chi sottolinea l’imbarazzo di mettersi a nudo davanti ad un sacerdote, la scarsa o relativa fiducia nei suoi confronti, l’impressione di essere giudicati più che perdonati.

Qualche anno fa, una ricerca curata dall’Università Cattolica di Milano forniva il dato che solo il 9% dei cattolici italiani si confessa almeno una volta al mese, il 30% vede negativamente il rituale della penitenza com’è praticato oggi, e quasi un quinto di essi ritiene che tale sacramento non abbia alcun senso. Uno studio condotto in una città del centro Italia, poi, ha rilevato che tra l’80 e il 90% dei cattolici in età adulta non si confessa più da anni. Fra gli specialisti, si va da chi ammette che c’è una difficoltà enorme, oggi, a nominare il peccato, a riconoscerlo in un’azione concreta a chi constata che si dà più attenzione all’atteggiamento psicologico e non si è più capaci di valutare il comportamento concreto.

Il paradosso, semmai, è che - in contemporanea col fenomeno della diserzione in massa dei confessionali - assistiamo quotidianamente al trionfo mediatico dei confessionali televisivi, ai talk show in cui si mettono in piazza i propri segreti più intimi, ai blog sul WEB dove si rompe la privacy dietro il fragile riparo di uno pseudonimo. Per non citare che di passaggio la dilagante diffusione della pratica dell’analisi, e la sostituzione della figura sociale del confessore con quella dello psicanalista. Mentre resiste, invece, ulteriore elemento su cui dovremmo indagare, la confessione vissuta in trasferta, quella del pellegrinaggio tutto compreso, nei santuari o nei periodi estivi della villeggiatura…

E' evidente, direi, che la crisi della confessione si presenta anche e soprattutto come una crisi d’appartenenza alla chiesa stessa, e che qualsiasi tentativo d’analisi rimanda necessariamente alla faticosa trasformazione in atto dell’identità cristiana nella cultura occidentale, in un contesto non più di maggioranza conclamata ma di minoranza, più o meno impegnata. All’interrogativo che un grande teologo del Concilio, il canadese J. M.Tillard, scomparso qualche anno fa, si poneva coraggiosamente e senza alcuna concessione al pessimismo di maniera: siamo gli ultimi cristiani? Accanto ad esso, verrebbe allora da chiedersi: saremo gli ultimi a confessarci? E se Tillard rispondeva che non siamo gli ultimi cristiani tout court, ma gli ultimi esclusivamente di genere, di cultura e tradizione, anche sul sacramento in questione sarà indispensabile lasciarci alle spalle gli antichi trionfalismi e le relative consuetudini, per cominciare a sperimentare modalità nuove e più vicine alla sensibilità culturale attuale. Tanto più che sono gli stessi documenti postconciliari a fornircene la possibilità reale; anzi, ad invitarci a superare stili superati e poco biblici per abbracciare modelli aperti, ricchi d’echi scritturistici e incentrati sul volto misericordioso di Dio più che sull’eventualità di ricevere i suoi terribili castighi.

Non è casuale, da questo punto di vista, il fatto che si dia gran disordine sotto il cielo della confessione, sul piano linguistico. Se il magistero e i trattati teologici lo chiamano tecnicamente penitenza, la religiosità popolare parla ancora della confessione; e se i liturgisti preferiscono la dizione riconciliazione, la catechesi recente ha coniato l’espressione originale di sacramento del perdono, recepita dalle comunità più avvertite. Sì, non si tratta di una pura disputa lessicale! Dietro ogni termine c’è l’intenzione di porre in luce un determinato aspetto del rito e di rendere più adeguata la prassi ecclesiale (non scordiamo che alle origini del cristianesimo la parola latina paenitentia fu utilizzata per rendere il greco metanoia, fulcro del tema biblico della conversione del cuore).

Se la storia del sacramento lungo i secoli appare complessa - anche se ben pochi sono i cambiamenti radicali di esso, dalla comunità primitiva al Vaticano II - è indispensabile sostare sull’ultima sua riforma (1973), fortemente voluta da Paolo VI nel quadro del rinnovamento liturgico. In quella stagione la disaffezione verso la confessione era già assai marcata: ad essa il nuovo Rituale rispondeva tenendo in secondo piano l’ancestrale paura della pena e del castigo infernale e incentrando piuttosto la teologia del rito sulla scelta di una vita rinnovata.

Leggiamo i Praenotanda del Rituale monti-niano: “Al regno di Cristo noi possiamo giungere solo attraverso la metanoia, cioè con quel cambiamento interiore di tutto l’uomo, per effetto del quale l’uomo comincia a pensare, a giudicare, e a riordinare la sua vita, mosso dalla santità e dalla bontà di Dio, come si è manifestata ed è stata a noi data in pienezza nel Figlio suo” (n.6a). Qui il riferimento principale è alla Bibbia, più che ai manuali di teologia o di diritto canonico. Alla verità della conversione e alla qualità del cristianesimo vissuto, più che al bisogno di scaricarsi la coscienza di un peso intimo.

Siamo davanti, comunque lo si voglia guardare, ad un sacramento che abbisogna di modalità rinnovate, pena il rischio di scomparire del tutto. Settimana, periodico dehoniano fra i più letti nelle parrocchie, è giunto a chiedersi, tempo fa: Inarrestabile estinzione del sacramento della penitenza? Mentre la stessa Lettera apostolica di Giovanni Paolo II Misericordia Dei, su alcuni aspetti della celebrazione del sacramento della penitenza, si limitava a richiamare le norme vigenti sul piano del diritto canonico: e il silenzio che ne seguì ha parlato abbondantemente, segnalando che la questione va affrontata in maniera radicale e coraggiosa. Scegliendo la strada della creatività espressiva e teologica, com’era normale per le chiese più antiche.

Occorrerebbe dunque rimboccarsi le maniche e, in primo luogo, investire seriamente in una catechesi che sappia educare a comprendere che l’esperienza del perdono offerta dal vangelo può riempire il cuore; una catechesi paziente e graduale al fine di superare abitudini consolidate che hanno via via impoverito e letto in chiave puramente giuridica la prassi del sacramento. Lasciarsi alle spalle le idee che hanno condotto intere generazioni a viverlo fra tremendi sensi di colpa e il terrore del castigo divino. Passare dal timore dell’ira di un Dio giudice implacabile all’accettazione dell’aiuto di un Dio padre misericordioso, sulla scia della parabola che era definita un tempo del figliol prodigo e oggi - appunto - del Padre misericordioso (Lc 15,11-32).

Un impegno forte è poi richiesto al confessore, quello di favorire il più possibile la comunicazione, la possibilità al penitente di raccontarsi, evitando la pura e semplice (e fredda) elencazione dei peccati commessi.

Resta, in ogni caso, un nodo di fondo, che ci dovrà spingere a immaginare modelli di celebrazione penitenziale non necessariamente sacramentali, magari riscoprendo itinerari penitenziali, e valorizzando appieno l’atto penitenziale proposto all’inizio della messa. Non va dimenticato che già nella riforma di Paolo VI sono previste forme diverse per la celebrazione, e che accanto a quella tradizionale, auricolare, si danno due modalità di impianto comunitario: una con assoluzione generale e l’altra con assoluzione individuale.

Il panorama attuale, del resto, non è dissimile da quello che aveva davanti Gesù di Nazaret all’esordio del suo ministero, quando annunciava il regno di Dio e come condizioni d’accesso poneva la conversione e la fede. Così, il sacramento della penitenza non ha la funzione di esonerare l’uomo dalla conversione, ma di rendergliela possibile, e meglio percorribile, nonostante la sua attitudine al peccato: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo (Mc 1,15).

Brunetto Salvarani

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