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Redazionale del n° 10 (Dicembre 2002)

Venne alla luce Gesù

una prospettiva cosmica,
aperta a tutti i "poveri di YHWH"

Una decina d’anni fa, in una serata calda e accogliente ad Assisi-Santa Maria degli Angeli, ritengo di aver avuto la fortuna di capire dal di dentro il passo evangelico della Trasfigurazione, durante il quale un eccitato Pietro chiede a Gesù di poter fare tre tende, una ciascuna per lo stesso Gesù, per Mosè ed Elia (Mc 9,5). In occasione di uno dei convegni annuali di CEM Mondialità, infatti, sono stato partecipe della prima (ed unica) chiacchierata in libertà fra due autentici profeti del cristianesimo del nostro tempo, Bruno Hussar, il fondatore del Villaggio della pace Nevé Shalom - Waahat as-Salaam, e Raimon Panikkar, autorevole protagonista, sulla propria pelle e sulla propria storia, dell’incontro fra culture occidentali e orientali. Nel dialogo, svoltosi tra i tavolini di un bar, fra i due - che si erano appunto appena conosciuti - mi permisi timidamente di intromettermi, domandando loro quali avrebbero dovuto essere, dal loro punto di vista, gli argomenti di un prossimo concilio della nostra chiesa. Ricordo bene che ebbero una risposta pronta per ciascuno, senza farsi pregare più di tanto.

Da parte sua, padre Bruno, l’uomo delle quattro identità (che fu anche uno dei principali ispi-ratori della "Nostra Aetate") sosteneva l’assoluta necessità, per la comunità cristiana, di recuperare definitivamente le proprie radici ebraiche, ripristinando la situazione precedente alla grave frattura con la sinagoga avvenuta nel primo secolo dopo Cristo: tutte le altre rotture intracri-stiane successive, nel corso dei secoli, non sarebbero che pallidi riflessi di quella prima, originaria, tra ebrei e gentili. Il prossimo concilio, dunque, in una simile ottica, dovrà essere il Concilio di Gerusalemme II, dopo e in prosecuzione di quello narrato negli Atti degli Apostoli al capitolo 15, che proclamerà soprattutto l’ebraicità di Gesù di Nazaret e i suoi riflessi.

A parere di Panikkar, invece, il maggior problema del cristianesimo attuale consisterebbe nel bisogno di inculturarsi nelle più diverse tradizioni sociali e civili, fino a doversi domandare: chi è Gesù Cristo per l’Oriente, per l’Africa, per il Terzo Mondo? Come Gesù può divenire il Salvatore per quei popoli, per quelle nazioni che sono le protagoniste del presente, ma lo saranno ancor più del futuro? Ovvio che, in tale chiave di lettura, l’assise del domani sia un Concilio Vaticano III, che si focalizzi su tematiche del genere, sullo sforzo di "adattamento" della liturgia, dell’ascolto della Parola di Dio e dell’essere chiesa nelle più svariate culture.

Non è casuale, credo, che nell’approssimarsi del Natale dell’anno di grazia 2002 mi sia tornato in mente quel dialogo, conclusosi, ai miei occhi, con un nulla di fatto. Anzi, vorrei dire, adottando un’immagine fra il biblico e lo sportivo, con un salomonico pareggio: perché Hussar e Panikkar avevano entrambi ragione, e - narrando inevitabilmente di sé e delle proprie speranze sul futuro della chiesa e delle genti - raccontavano delle due prospettive strategicamente decisive rispetto all’interpretazione della figura di Gesù. Sguardi non contrapposti, ma da tenere strettamente intrecciati, se il 25 dicembre vogliamo incontrare non una personalità sbiadita e una statuina da porre sia pur devotamente nel presepe per accontentare una tradizione popolare, bensì il Gesù della storia e il Cristo della salvezza cosmica.

Da un lato, dunque, l’invito è a recuperare senza timori e con grande gioia Yehoshua ben Yosef, "nato dalla stirpe di Davide secondo la carne" (Rom 1, 3), "nato sotto la legge" (Gal 4, 4), nonostante lungo la storia noi cristiani l’abbiamo sradicato dal terreno d’Israele, rescindendo i legami con "la radice che ci porta" (Rom 11, 18), e di volta in volta "degiudaizzato, estraniato, gre-cizzato, europeizzato, tedeschizzato" (C. Thoma).

Senza la radice d’Israele, rischiamo di essere come il sale che ha perso il proprio sapore (Mt 5, 13). Forse la via migliore per ritornare a tale radice e per riacquistare il sapore smarrito, è quella di percorrere, con umiltà e rispetto, il cammino dell’"incontro", più ancora che del "dialogo", fra ebrei e cristiani (esigenza certo più cristiana che ebraica), partendo da rabbi Gesù di Nazaret, ebreo in tutto e per tutto e in quanto tale avvicinabile sia dagli ebrei sia dai cristiani, ognuno secondo la propria strada, e ognuno conservando la propria specificità. La via di un simile incontro deve necessariamente passare attraverso quel Gesù, poiché egli "rimanda l’ebreo al suo ebraismo e la reazione ebraica verso Gesù può, è sperabile, aiutare il cristiano nella sua cristiana intelligenza di se stesso" (D. Flusser).

Qui, ormai, va ammesso che parecchi passi avanti sono stati compiuti, negli ultimi anni. Molti altri andrebbero però fatti, nella direzione di una condivisione di tale "metanoia" da parte delle chiese locali, delle parrocchie: è lecito essere ottimisti, del resto, se si pensa che solo nel 1959, grazie ad un’intuizione formidabile di Giovanni XXIII, la comunità dei cattolici smise di pregare - in occasione di ogni venerdì santo - "pro perfidis Iudeis", mentre nel 2000, durante il suo pellegrinaggio giubilare alle sorgenti della nostra fede, Giovanni Paolo II è giunto a recarsi al Muro occidentale, a Gerusalemme, e ad imitare i pii ebrei nell’infilare in qualche interstizio di quell’antichissima reliquia della venerazione d’Israele una personale preghiera…

Ecco, dunque: durante questo Natale, ripensiamo a Gesù, il bambino ebreo, secondo le indicazioni di Bruno Hussar (che la sua memoria ci sia di benedizione!). Ma non dimentichiamo, sulla linea di Raimon Panikkar, che Gesù venne alla luce - da ebreo - in una prospettiva cosmica, planetaria, e scandalosamente aperta a tutti i "poveri di YHWH" (secondo la dizione biblica), senza alcuna distinzione di appartenenze identitarie, etniche o religiose. Che nacque, anzi, fuori dal consorzio umano, lontano da casa, tra animali, in una mangiatoia "perché non c’era posto per loro nell’albergo" (Lc 2, 7).

La sua missione, come annota brillantemente Leonardo Boff da sincero teologo della Liberazione, appare definita sin dall’inizio: stare dalla parte dei "senza posto" e identificarsi con gli esclusi che - ieri come oggi - costituiscono sempre la grande maggioranza dell’umanità. Tutti, indipendentemente dalla loro situazione morale, detengono il grande privilegio di portare in sé Gesù il Cristo: essi sono la "stalla" dove Egli riposa. Dal ventre dei poveri, dei migranti, degli umiliati, continua a nascere il liberatore del mondo. Del mondo intero! Se egli è sceso inaspettatamente fra noi, è per ascoltare meglio il clamore che sale dalla terra e per sciogliere dalla loro condizione gli oppressi; per questo, a Natale, Dio lascia la sua luce inaccessibile e penetra in questa tenebra disumana, identificandosi con tutti loro, fino a dir loro: "Voi siete i miei figli e figlie prediletti. Per voi voglio essere Emmanuele, il Dio-con-voi. Asciugherò tutte le lacrime dei vostri occhi. Il mio nome è Yehoshua, vale a dire "Dio salva"!".

Natale 2002: personalmente, cercherò di tenere assieme questi due "opposti", il massimo di centratura sul neonato Yehoshua di Nazaret, figlio del falegname e futuro rabbi di Israele, dell’"olivo buono", secondo Paolo ai Romani; e il massimo anche su Gesù salvatore dei popoli, di tutti i popoli, e soprattutto di quelli che, una volta di più, mendicano in queste settimane una speranza di vita perché quotidianamente colpiti dalle piaghe d’Egitto della sottoalimen-tazione, della siccità, del terrorismo e di conflitti civili, di strumentalizzazione del santo nome di Dio, di vergognosi squilibri sociali, della mancanza di libertà religiosa, e così via. Non so se ci riuscirò, ma umilmente pregherò per questo.

Buon Natale, allora, il meno retoricamente possibile, alle lettrici e ai lettori di TdF. E benvenuto, piccolo Emmanuele, che il tuo arrivo fra noi sia davvero "una gioia per tutto il popolo" (Lc 2, 10).

Brunetto Salvarani

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