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Redazionale del n° 6 (Giugno-Luglio 2001)

Riflessioni sul vertice dei G8 e dintorni

Il complesso fenomeno che va sotto il nome di globalizzazione, cioè il modello economico-sociale instauratosi a livello mondiale, produce grandi danni in tutti i settori: lavoro, ambiente, divario Nord-Sud, pace, salute e così via. Qualcuno sostiene che tali danni siano controbilanciati dai vantaggi e possano in futuro essere superati. Molti altri invece ritengono, basandosi su analisi, studi ed esperienze, che ciò sia impossibile e che sia perciò necessario modificare profondamente tale modello di sviluppo (sarebbe più esatto dire "crescita" teoricamente illimitata). Noi siamo tra quelli. Questo atteggiamento non nasce da preconcetti, ma dall’osservazione della realtà. Non è questa la sede per dimostrare la fondatezza di tale posizione; basti un esempio per tutti: il fatto che 39 case farmaceutiche abbiano intentato causa ad un governo che, attenendosi al suo compito di salvaguardare la possibilità di accesso ai farmaci da parte della popolazione, ha promulgato una legge che consente di importare e produrre una versione più economica di medicine anti AIDS. Un brevetto vale più della vita?

Ciò che è necessario oggi è salvaguardare il diritto ad avere e manifestare opinioni divergenti da quelle dominanti. In buona fede o no, i sostenitori dell’"ordine costituito" tendono ad ignorare, ridicolizzare, criminalizzare o inglobare chi ha un diverso progetto di società.

L’opinione pubblica è disorientata. Se avverte il disagio, difficilmente individua le vere cause ed i possibili rimedi, tendendo invece a colpevolizzare i più deboli o chi ha responsabilità marginali. Le incombenze quotidiane ed il desiderio (legittimo) di tranquillità ostacolano la possibilità di informarsi correttamente. Chi vorrebbe, come noi, comunicare informazioni e invitare alla presa di coscienza, trova difficoltà nel reperire lo spazio ed il luogo in cui esporre i propri punti di vista. È difficile far balenare l’idea che non è vero che non ci sono alternative, ma che, al contrario, esistono molte alternative da cercare e praticare creativamente.

In questo quadro si collocano il "Vertice dei G8", che si terrà a Genova in luglio, e la necessità di denunciare, protestare, proporre.

Luglio non è un mese propizio all’impegno, tuttavia sarebbe necessario esserci, mescolando generazioni e culture. Come prevede Renato Rizzo su La Stampa del 12/4, in un articolo peraltro antipatico, scritto dopo gli attentati di Roma e di Torino, che i ogni caso favoriscono i sostenitori della globalizzazione e non chi la contesta. Egli prevede l’afflusso di più di centomila persone, tra cui 2000 suore missionarie, 10000 giovani delle parrocchie anglicane britanniche, militanti dell’ARCI, ambientalisti, sostenitori degli Zapatisti, Rete di Lilliput, pacifisti e… ohimè… "arrabbiati della protesta".

Qui si evidenzia uno dei nodi del problema: i metodi della contestazione. Chi, come noi, ricorda gli anni passati può rilevare che i metodi nonviolenti si sono affermati maggiormente e sono condivisi quasi da tutti, però restano due problemi aperti: la possibilità di atti violenti isolati da parte di alcuni e l’interrogativo se disubbidire o no di fronte ad eventuali divieti. Sul primo punto sarebbe assolutamente necessario dissociarsi preventivamente; e, nello stesso tempo, affermare che questa eventualità non può impedire agli altri di manifestare; non siamo noi che possiamo farci carico del controllo di chi vuole comportarsi aggressivamente. Queste persone possono essere mosse da problemi psicologici individuali, da concezioni ideologiche errate o dal desiderio di provocare ad arte disordini e repressione indiscriminata; sarebbe bello ed opportuno riuscire ad indurle a modificare il loro comportamento, potrebbe essere uno dei compiti dei movimenti, a lungo termine, ma una cosa è certa: non può essere un motivo per non manifestare. Quello che si può fare in proposito è un’azione di "pressing" sui mass-media affinché non enfatizzino tali eventuali episodi e parlino invece delle ragioni che muovono i contestatori.

Il secondo problema è più complesso e delicato: la disobbedienza civile è una tecnica nonviolenta e non si può obbedire ad ordini illegittimi.

Dunque, se il divieto di manifestare fosse assoluto, bisognerebbe disobbedire. Come? Ci sono tecniche nonviolente e percorsi di preparazione adeguati. Se il divieto fosse limitato ad alcune aree della città, quelle più vicine al luogo dove i "grandi" si riuniscono, bisognerebbe chiedersi se, nell’attuale situazione, sia più opportuno accettare il compromesso o fare un passo in più, rischiando sia la reazione della polizia che l’incomprensione dell’opinione pubblica. In ogni caso è necessario preparare un clima favorevole al rispetto della legalità, scrivendo lettere alle autorità (Sindaco di Genova, Presidente del Consiglio, Ministero dell’Interno) con la richiesta di salvaguardare tutte le garanzie democratiche anche attraverso opportune disposizioni delle forze dell’ordine e sollevando, anche a livello legale, due questioni; la libera circolazione delle persone e l’uso di strumenti nuovi (rispetto ai manganelli ed agli idranti) da parte della polizia. Gli avvenimenti di Praga, Nizza e Napoli non sono confortanti e non dovrebbero ripetersi. Sulle nuove "armi" tecnologicamente avanzate adottate nei paesi democratici c’è anche un’inchiesta di Amnesty International: sostanze chimiche urticanti o di altro tipo potrebbero avere sulle persone effetti molto gravi, perché non se ne conoscono le conseguenze a lungo termine e perché potrebbero provocare, in alcuni, forti reazioni allergiche.

Passando ad un’altra questione, occorre ricordare che, anche riguardo alla globalizzazione socio-economica e culturale, la situazione delle donne ha una sua specificità. Esse sono maggiormente penalizzate rispetto alle condizioni di vita e di lavoro, sia nei paesi poveri che in quelli sviluppati. Inoltre cresce la violenza antifemminile dei nuovi integralismi, non solo nell’Afganistan dei talebani. Molte si rifiutano di subire passivamente e, pur tra mille difficoltà, si organizzano, elaborano piattaforme rivendicative e talvolta ottengono successi. La marcia mondiale 2000 ha visto la partecipazione di 6200 organizzazioni e si è conclusa in ottobre con una manifestazione di 50.000 donne. Per queste ragioni, la rete dei gruppi che fanno riferimento a questa marcia ha indetto, per la metà di giugno, a Genova, un meeting ed una manifestazione per dare alle donne un momento di visibilità autonoma e specifica e per preparare una piattaforma da presentare in occasione della manifestazione di luglio, comune a tutto il movimento antiglobalizzazione.

Per concludere possiamo dire, riferendoci anche al Forum di Porto Alegre, di cui ha riferito Gigi Eusebi sul n° 4 di TdF, che è necessario "globalizzare la protesta", ma soprattutto "globalizzare la proposta" di alternative credibili alla situazione attuale. Non è un compito facile sia per quanto riguarda l’elaborazione che per quanto riguarda la divulgazione. Il movimento nel suo insieme e tutte le associazioni ed i singoli dovrebbero impegnarsi per esporre le proposte alla gente in modo semplice, chiaro, comprensibile e aperto ai contributi critici, alle sperimentazioni, alle verifiche e alle modifiche. Occorrono tante iniziative decentrate e partecipate, prima, durante e dopo il vertice G8, altrimenti anche la manifestazione meglio riuscita resterebbe un fatto isolato senza conseguenze costruttive.

L’impegno costante produce qualche frutto come ha dimostrato, ad esempio, il ritiro della denuncia delle case farmaceutiche contro il Sud Africa, dopo la mobilitazione di Medici senza Frontiere ed altre organizzazioni.

per la redazione Minny Cavallone

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