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LETIZIA E SOFFERENZA

ANCHE NELLE UMILIAZIONI SI PUÒ ESSERE FELICI

 

PREMESSA

Il tema è ampio e insieme complesso. Non è facile parlare di letizia e di privazione insieme, di letizia e di sofferenza.

La letizia francescana congiunge questo binomio un po’ arduo. La letizia nelle privazioni e anche nelle sofferenze, o nelle ingiurie. Normalmente, noi diciamo felice l’uomo che ha conseguito ed appagato le sue aspirazioni, quindi a cui mancano le inquietudini, le insoddisfazioni. Difatti, si è contenti quando si ha tutto quello che si desidera, ma la letizia è sinonimo di felicità, di allegrezza, di gioia, di equilibrio interiore e anche di serenità, tranquillità, pace. In realtà, manca sempre qualcosa, però non manca mai tanto da perdere la pace, l’interiorità, la tranquillità.

Il Vangelo allarga in qualche modo la piattaforma della felicità, perché la fa coesistere con le privazioni, le prove, gli insuccessi, addirittura anche con le afflizioni e con le persecuzioni.

Anche nelle umiliazioni si può essere felici. "Beati i poveri in spirito", equivale a "Beati gli umili". Non tanto quelli che hanno il cuore distaccato dai beni, ma coloro che posseggono uno spirito, un animo povero, che non si avvalgono della loro personalità, di se stessi, che non aspirano a emergere. Anche in questa situazione, uno può essere felice.

La felicità e la letizia, per il cristiano, è sempre un discorso ambiguo perché, da una parte, si chiede di distruggersi e dall’altra di essere contenti. Ti si chiede di morire, e dall’altra parte di vivere.

Il tema si può sviluppare in due tempi:

1) Letizia francescana.

2) Perfetta letizia.

1° Letizia francescana

Certo, non è una scoperta di Francesco la letizia: gli uomini hanno cercato sempre di essere lieti; però il suo tentativo, forse, è il primo nella storia della spiritualità a porre la letizia nel numero delle virtù.

Un santo, un uomo di Dio, non si era mai preoccupato di essere allegro, e non si era mai pensato, che un cantastorie, un giullare potesse essere un santo. Gesù, si è sempre detto, che non ha mai riso, perché più o meno il riso abbonda sulla bocca degli stolti, mai sulla bocca di un uomo saggio. Nella tradizione evangelica, Giovanni Battista non è mai presentato sorridente, piuttosto burbero per non dire accigliato; era un predicatore di penitenza, ma anche un "terrorista", passi la parola, perché ha dato di Dio una versione dura, quasi spietata, inaccettabile. Perché dover credere a un Dio che ti sta sempre col fucile spianato in faccia?

Gesù è un profeta che è passato facendo del bene e guarendo gli uomini dalle loro infermità (At.10, 38), ma non si è preoccupato, neanche lui, di dare suggerimenti, inviti a essere lieti. Non ha mai detto: siate allegri, bandite la melanconia, la tristezza, siate disinvolti. Ha guarito gli ammalati, ha tolto loro la causa del dolore e anche inviando i suoi discepoli, non ha raccomandato: fermatevi con la gente e mettetevi a cantare con loro, rallegrateli. Forse non era il tempo, non rispondeva alla sua personalità. Sono tre persone diverse: il Battista, Gesù, Francesco; tre profeti differenti, tre predicazioni, tre testimonianze a sé pur collegate tra di loro.

Paolo chiede ai Tessalonicesi di essere sempre lieti, però è una letizia di gente perseguitata. Non vi fate accasciare dalle persecuzioni, non è il discorso sul quotidiano. Francesco pone una distinzione tra le emozioni piacevoli a cui crede di dover rinunciare e lo fa senza alcuna riserva e quelle che può permettersi di coltivare. Si è privato di tutto ciò che poteva accarezzare la sua sensitività, ma non del piacere di contemplare e gioire delle cose belle che vedeva attorno: dei fiori, delle piante, degli animali, degli astri, della poesia, della musica, del canto. È un santo, ma anche un poeta e vive una dimensione senza rinunciare all’altra.

Attualmente la spiritualità cristiana sembra registrare dei progressi. Anche le emozioni dei sensi possono essere motivo di gratitudine e di gioia. Non era mai stato detto ai coniugi di ringraziare Dio dopo una comunione intimistica. Dopo tante azioni di grazie per cose meno "decenti" (il mangiare o il bere), si potrebbe manifestare la propria gratitudine a Dio per un dono molto più grande.

Francesco non ha avuto questa possibilità; è vissuto nel medioevo, in cui c’era troppa paura della corporeità. Egli ne ha frenato tutta l’invadenza, ma non si è privato del fascino della bellezza e delle emozioni che essa suscita nell’animo di chi la contempla.

La ragione di questa singolarità è forse nell’autonomia che ha conservato anche dopo la conversione. La sua fortuna è stata quella di non essersi cacciato, dopo il grande passo compiuto, in un convento, in un monastero o in un seminario, I maestri che qui avrebbe incontrato, gli avrebbero insegnato l’austerità, il rigore, prima della gioia; gli avrebbero messo in mano un teschio più che un liuto.

Gesù non ha mai detto che la terra è una valle di lacrime, ma non ha neanche detto che è un giardino, un eden da godere, tanto meno che è un parco di divertimenti. Ha fatto delle affermazioni più in prospettiva extraterrestre o celeste, che in prospettiva terrena. La terra è un luogo di passaggio.

Francesco è più ottimista. Anche lui è totalmente proiettato nell’aldilà, nel mondo di Dio, ma guarda con grande attenzione, ammirazione e gioia al mondo in cui vive, agli esseri che lo popolano, lo adornano, e ne rimane entusiasta, soddisfatto, contento.

È una singolarità, perché è una novità nella storia cristiana. Anche qui Francesco ha fatto fare un passo avanti al Vangelo, come quando abbraccia il lebbroso che Gesù tocca appena con un dito. Francesco non l’ha guarito, ma se avesse potuto, l’avrebbe fatto. Gesù ha fatto riferimento agli uccelli dell’aria e ai gigli dei campi; ma non ha mai fatto un discorso sulla bellezza, sul fascino del creato.

Francesco dopo la conversione abbandona il lusso, la gloria, ma non cambia il suo temperamento, non abbandona il canto e la musica.

Da ricco diventa povero, da signore si fa manovale e muratore, ma canta lo stesso, mantiene la giovialità. Non ha più nulla, è l’ultimo di tutti, ma ha ancora il coraggio di intonare canzoni.

Sarà austero ma non burbero, piuttosto dolce, mite e tenero con tutti, uomini e animali, lebbrosi e ladri. Questo è il suo costante atteggiamento. È ammirevole, questa sua poliedricità, questa sua capacità, anche se difficile da attuarsi.

Ha rinunciato ai piaceri del corpo, ma non ha lasciato distruggere gli affetti. Perché, pur non concedendosi nessuna soddisfazione, ha amato teneramente Chiara, Giacomina e le povere dame di San Damiano. Non ha coltivato per sé, per sue egoistiche soddisfazioni questo sentimento, ma lo ha accolto ampiamente in termini di arricchimento e di espansione. Per i benpensanti, non solo di allora, c’è una contraddizione, quasi un’assurdità; Francesco invece è sempre raggiante, nonostante i digiuni e le penitenze.

Ora, quale può essere la radice di questa felicità di Francesco? Certo è spirituale e dipende dalla sua piena comunione con Dio. Non si può prescindere da questo conferimento soprannaturale, da questo arricchimento profondo che ha nell’anima. Lui si priva di tutto, ma si riempie di Dio e da questa pienezza arriva anche la sua grande gioia. Le cose che egli vede gli appaiono frammenti della bellezza, della gloria di Dio sparse nel Creato. Non è certo un panteista, ma in questa visione egli non distingue più il divino e il terreno, e trova nel Creato sempre un motivo per gioire, per tripudiare. Quindi non è un possesso disgiunto ma complementare, in modo che guardando una realtà, se ne trova un’altra. Pur grande penitente, Francesco cercava di conservare sempre il giubilo del cuore, l’unzione dello spirito, la letizia; evitava con la massima cura la melanconia, il peggiore dei mali. Mai tanta dolcezza e tanta grazia si erano trovate insieme in un discepolo di Cristo, come in Francesco.

"Il suo volto irradiava una serena bontà, i suoi occhi brillavano sempre di una fiamma purissima" (H. Hesse), che conquistava i comuni fedeli, come piegava le resistenze più ostinate.

Questa letizia non è una copertura, una veste che uno si mette e poi toglie quando vuole; è invece una profonda convinzione interiore, una realtà.

Francesco trova la vera gioia nell’accettare non solo pazientemente ma anche serenamente e gioiosamente persino le incomprensioni dei suoi frati, i maltrattamenti immeritati della vita quotidiana. La gioia è un dono che gli uomini cercano e attendono e che il credente è tenuto a trasmettere come l’amore, la fede.

Le persone hanno bisogno di vedere volti sereni, ilari, facce spianate, un sorriso più che penitenti e predicatori accigliati. Quindi la gioia, perché è un mezzo di irradiazione di pace, di tranquillità, è una forma di apostolato. Non ci si presenta sorridenti per far fortuna, ma perché gli altri comprendano che hai un messaggio da trasmettere. Le beatitudini evangeliche trovano la loro sublimazione nel discorso della perfetta letizia. Esse sono per la gente che è perseguitata a motivo della fede; la perfetta letizia è la sopportazione anche per qualsiasi incomprensione della propria esistenza.

Francesco, non amava le facce melanconiche e depresse, una volta rimprovera un frate perché aveva l’aria triste, sopportando la cosa a malincuore, gli disse: il servo di Dio non deve mostrarsi agli occhi degli altri triste e rabbuiato, ma sempre sereno. Ai tuoi peccati, riflettici nella tua stanza e alla presenza di Dio piangi e gemi, ma quando ritorni tra i frati, lascia la tristezza e conformati agli altri. (Celano lI, 90 F.F.712). Lui stesso nei momenti in cui non era contento, non stava in forma, per non far star male gli altri frati non si faceva neanche vedere. "Gli avversari della salvezza umana hanno molta invidia di me e siccome non riescono a turbarmi direttamente, tentano sempre di farlo attraverso i miei compagni". Amava tanto, poi, l’uomo pieno di letizia spirituale che nella regola fece scrivere: "si guardino i frati di non mostrarsi tristi di fuori, e rannuvolati come degli ipocriti, ma si mostrino lieti nel Signore, ilari e convenientemente graziosi" (Celano II, 90 F.E712). Quando arrivò da Papa Innocenzo a Roma, questi vedendolo disse: "Vai a pascere i porci, poi torna." Lui andò e tornando disse: "ho fatto quello che m’avete detto, adesso cosa devo fare? I frati siano giocondi e garbati, garbatamente allegri e ancora si mostrino sempre allegri nel Signore, sorridenti e gai e convenientemente graziosi." (Regola non bollata, VII, 17).

Il Dio tradizionale, il Dio della Bibbia, il Dio della predicazione comune era sempre un Dio giusto e giudice, più che un amico dell’uomo.

Francesco di fronte ai vari profeti di sciagure, vuole essere ricordato come un profeta di consolazione, per questo non sa essere triste, neanche quando, i mali fisici hanno preso il sopravvento, neanche allora si attenuano i toni della letizia, cerca anzi un po’ di sollievo attraverso la musica. Una norma che vale anche per i suoi frati; quando essi arrivavano in qualche luogo dovevano instaurare per tutti un clima di festa; quali giullari di Dio dovevano contribuire affinché un tal clima si instaurasse.

I giullari erano i cantastorie di corte, che allietavano la vita di quei principi che non avevano, può darsi, molti motivi per essere allegri e allora si facevano rallegrare dalle loro storie. Per Francesco il popolo doveva avere anch’esso dei giullari, cioè degli uomini che dovevano rallegrarli e perciò dovevano passare in mezzo alla gente creando un clima di festa. Clima di giovialità, di serenità, soprattutto in quest’appendice del Medio Evo, in cui le persone erano molto tristi o depresse. Il giullare in quel tempo era un cantastorie di corte, capace di suonare, recitare, fare giochi di prestigio. Francesco aveva tutte le doti di un cantastorie perché aveva fantasia, estro poetico, piacere della musica, del canto e soprattutto una grande tenerezza che gli veniva dall’animo. Francesco compose l’inno del Cantico delle Creature e suggerì anche la melodia per eseguirlo. Il suo spirito era immerso in una profonda dolcezza e consolazione. Voleva mandare a chiamare frate Pacifico di San Severino, che nel secolo era detto: "re dei versi" ed "era gentilissimo maestro di canto, ed assegnargli alcuni frati buoni e spirituali affinché andassero per il mondo a predicare e a lodare Dio, andassero anche cantando le lodi del Signore". Voleva che, dapprima, uno di essi, capace di predicare, tenesse al popolo un sermone, finito il quale, tutti insieme cantassero le laudi al Signore, come giullari di Dio. Tommaso da Celano affermava che "i frati minori sono stati mandati dal Signore, in quest’ultimo tempo, per offrire esempi di luce a chi è avvolto nel buio del peccato". All’udire le opere virtuose di tanti frati sparsi nel mondo, si sentiva come inebriato da soavissimo profumo e cosparso di unguento prezioso, quindi, il Santo gongolava di gioia nell’udire tali cose. Al sentire che i frati andavano per il mondo e facevano questo bell’apostolato, era proprio rallegrato intimamente.

Francesco è sommo penitente, sommo contemplativo, grande uomo di preghiera, lavoratore, predicatore, ma ugualmente seminatore di felicità. Anche quando sta per morire, o è infermo, non fa recitare salmi penitenziali o i salmi dei morti, ma invita a cantare.

In un momento di atroci sofferenze, dopo una notte terribile, si alza al mattino e compone il Cantico di frate Sole. Nella breve sosta che compie nel palazzo del vescovo, in Assisi, di ritorno da Siena, dove è stato a curarsi un male agli occhi, prega i suoi frati che eseguano un po’ di musica. Il canto, accompagnato dagli strumenti musicali di allora, era chiassoso per cui frate Elia si sentì obbligato ad ammonirlo e a far tacere questi frati, perché la cosa non era decente; c’era piuttosto da far penitenza e da pregare, visto che stava in punto di morte. E Francesco rispose: "Fratello, lasciami godere nel Signore e cantare le sue lodi in mezzo alle mie sofferenze, poiché per dono dello Spirito Santo, sono così unito al mio Signore che per sua misericordia, ho ben motivo di allietarmi nell’Altissimo".(Specchio di perfezione 121 FF1 821). Un’altra volta - in cui si tornava da Rieti - ricorda ancora frate Tommaso da Celano - chiamò un compagno, che prima di essere religioso, era stato un suonatore di cetra e gli disse: "Fratello, vorrei che tu in segreto prendessi in prestito una cetra, e la portassi qui, per dare a frate corpo che è pieno di dolori, un po’ di conforto con qualche bel verso". Il frate, mezzo novizio, appena convertito, gli disse che non era conveniente. Il santo allora tagliò corto e disse: lasciamo stare fratello. Però, durante la notte fu consolato da una melodia soavissima (Celano Il, 126 F.F.710). I Fioretti ricordano che: "Santo Francesco, alquanti di innanzi alla morte sua, istette infermo, in Ascesi nel pa lagio del vescovo, con alquanti delli suoi compagni, e tutta la sua infermità, egli ispesse volte cantava certe laudi di Cristo" (F.F.1943). Non dicono che ha chiamato i frati a cantare, ma lui stesso cantava le laudi di Cristo. Mostrava in questo modo, tutta la sua giovialità, nonostante le afflizioni e le malattie che aveva.

Quando il medico gli dice che era ormai alla fine, egli invece di rattristari, ebbe tanta gioia, che cominciò a cantare il Cantico delle Creature e poi aggiunse la strofa per sorella morte, e per quelli che muoiono nel tuo amore (Specchio di perfezione 122:123 F.F. 1822-1823). Muore, come era vissuto, cantando.

Gesù in croce, grida: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ponendo tutta la sua fiducia nel Padre, ma esprime anche un grande rammarico, un segno non di disperazione ma nemmeno di grande soddisfazione e gioia. Il suo assillo è ora quello se aveva imbroccato o no la strada giusta, poiché l’avevano condannato i rappresentanti di Dio. Francesco invece, muore tranquillo, senza confusione interiore, turbamenti.

2° La perfetta letizia.

Francesco è un santo singolare, penitente ma ilare, tutto di Dio, ma tutto dell’uomo; asceta ma anche pieno di tenerezza, di affettività; nemico di sé stesso, ma amico di tutti, persino dei lupi; come della luna, delle stelle, delle piante. Vive nella assoluta povertà fino all’ultimo grado della scala sociale, tra i minori; non si nutre, non dorme, ciononostante lavora seriamente, predica in continuazione, passa lunghi tempi in preghiera.

È stato un uomo straordinario, quando va a dormire cerca di non far accorgerne gli altri; usa per cuscino una pietra. Una vita originale: noi diciamo, se uno sta bene fisicamente, più lo spirito è debole. In Francesco avveniva il contrario. Benché affetto da varie malattie, fegato, milza, stomaco e alla fine dal male degli occhi è sempre contento.

Ha cercato il martirio, ma non l’ha trovato, ha avuto le persecuzioni, ha perso la famiglia, ha provato l’incomprensione dei frati, ma continua tranquillo la sua strada. La sua vita è una continua lotta di liberazione da se stesso, dalla ripugnanza verso i lebbrosi, dalla vergogna della mendicazione, anche se la prima volta è scappato via, quando ha visto davanti alla porta i vecchi amici. È riuscito a presentarsi per le vie di Assisi, lui che era andato prima da cavaliere, da signore, trascinato da una fune al collo come un ghiottone ingordo. È salito sul pulpito senza tonaca, con le sole mutande, ha abdicato a tutto il suo orgoglio, alla sua sensibilità e ha vinto l’uno e l’altra. Gli rimangono, però, dubbi sulla sua piena libertà perché forse si sente al sicuro dentro una grande, onorata famiglia di amici e ammiratori.

C’è qualcosa ancora che lo rende ricco e sicuro. Deve arrivare a questa espropriazione; non sarà facile perché non dipende da lui, dal suo volere. Allora si sottopone a delle prove reali e immaginarie. Incarica qualcuno di maltrattarlo, ricoprendolo di insulti e villanie (Celano, vita I, 53 F.F.415). Ma si vede che tali processi non lo lasciavano soddisfatto, si sottoponeva ad altri più spietati nella sua immaginazione. Fingeva di essere deposto da ministro generale, ripudiato come inadatto a tale ufficio, dai suoi frati. Non solo non si ribella, ma accetta la sentenza con gioia perché è quello che merita (Celano Il, 145 F.F.729). In questa singolare esercitazione di umiltà, si colloca anche l’ipotetica scena della perfetta letizia. Francesco è in viaggio con frate Leone, in un momento in cui il suo influsso nella fraternità sembra essere compromesso a motivo delle pressioni di frate Elia, dei provinciali, e soprattutto del cardinale Ugolino. Francesco avverte che la sua creatura più cara, la forma di vita nella semplicità che il Signore gli aveva rivelato, stava per essere, in qualche modo, se non cancellata, compromessa. È la crisi di Francesco, il momento decisivo della sua vita spirituale. Si profila nella sua mente, nella sua immaginazione, di essere addirittura estromesso dalla sua congregazione. Il testo della perfetta letizia si trova in due versioni: la prima è tra gli scritti di Francesco, l’altra nei Fioretti. La più genuina è la prima.

In questa il portinaio gli dice infatti: "Vattene", qui non ci puoi venire ormai, noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno dite. Neanche in quelle condizioni, e neppure per quella notte. "Vattene dai Crociferi e chiedi là" (F.F.278). La versione dei Fioretti è più dettagliata ma non tocca forse il punto essenziale dell’afflizione di Francesco. Tuttavia il santo, se pur non è spedito dai Crociferi, ma all’ospedale non trova accoglienza in una sua casa, proprio a Santa Maria degli Angeli il luogo della sua grande esperienza, la culla del suo movimento, dei raduni (i capitoli), e delle partenze missionarie. È il dramma più grande che gli sarebbe potuto capitare. La prova più atroce che avrebbe potuto subire.

La pioggia, il fango, il ghiaccio, il freddo, le ingiurie, le percosse sono delle aggravanti, ma il colpo, in qualche modo mortale è l’indifferenza, il rifiuto da parte dei suoi frati, rappresentati dall’intraprendente portinaio.

Il padre della fraternità minoritica è disconosciuto, ingiuriato, vilipeso, malmenato dai suoi figli. Egli avrebbe dovuto piangere, disperarsi, se non proprio intentare un processo. Non fa nulla di tutto questo, però, questa volta, non riesce a cantare, sopporta egualmente con allegrezza quindi in qualche modo canta, e con buonumore. "Tanta ingiuria, tanta crudeltà e tanti commiati pazientemente e senza turbarsene e senza mormorare di lui e penseremo che quel portinaio veramente ci conosca e che Dio gli fa parlare contro di noi, o frate Leone, scrivi: qui è perfetta letizia (Fioretti VIII F.F. 1836).

Quando questa ipotetica prova è superata, si può dire, brillantemente, allora la letizia è perfetta, perché è la suprema vittoria che Francesco ottiene su se stesso. Non c’è in lui una briciola di amor proprio, di orgoglio perché ha superato la prova più grande a cui il suo spirito poteva essere sottoposto e l’ha vinta, per questo ha motivo di rallegrarsi. Ora è nulla e nessuno, e questo lo riempie di gioia.

All’inizio si diceva che l’uomo è contento perché ha tutto, non gli manca nulla, né salute né beni; qui invece lo è quando non ha più nulla, assolutamente nulla.

Certo l’inno alla perfetta letizia è evidentemente una parabola, una composizione, però ritrae una storia vissuta in tutta la sua profonda realtà. Francesco non ha finto. Una volta, al capitolo delle Stuoie, quando i frati volevano una regola tradizionale, più o meno monastica, quindi degli ordinamenti precisi, egli disse la celebre frase: "Né Agostino, né Benedetto, né Gregorio". Ha resistito, l’ha detto anche a parole vivaci. Ma non era per salvare il suo punto di vista, ma quello che il Signore aveva rivelato.

CONCLUSIONE

Rimane difficile accogliere il messaggio della perfetta letizia, ma anche a capirsi.

Viene sempre di chiedersi: perché mai tanta ostinazione, tanto accanimento contro la propria identità umana, per essere felice? Non è tanto la rinuncia alle spinte sregolate dell’orgoglio, o delle passioni, ma la fine di tutto l’uomo, perché si possa essere felici.

Gli Stoici proponevano una scelta analoga, l’atarassia ovvero l’imperturbabilità, la quiete assoluta, la serenità di spirito, come il presupposto della felicità. Potrebbe essere una tattica: è meglio sopportare, quindi non arrabbiarsi, per superare il momento difficile. Francesco, però, non dice di abbozzare, di stare zitti, ma parla di contentezza, non di sopportazione, quindi di gioia, di letizia, di piena letizia, perché è riuscito in qualche modo ad avere questo pieno controllo della sua identità.

La vita quindi, in entrambe le scuole sembra nascere dalla morte, la gioia di vivere dalla capacità di morire. È strano, ma è questa la logica del grande messaggio francescano di una speciale eutanasia.

Si può parlare ma lascia sopravvivere l’essere umano, ma recide i sensi e l’intelligenza. L’uomo è ancora interamente se stesso, ma senza più personali aspirazioni, voci, emergenze, insistenze.

Sembra il trionfo del dicotomismo platonico (si uccide l’uomo, il corpo, affinché sopravviva lo spirito), o dell’ascetismo medioevale. È invece l’equilibrio tra le forze contrapposte presenti nell’uomo. La sua scelta di accettare, di sopportare, di subire non è a sé stante, è la via per togliere gli ultimi intralci alla comunione con Dio e all’intesa con i fratelli.

Quando l’uomo trova altri idoli, Dio rischia di rimanere assente, ma dove e quando gli ideali terreni e umani sono accantonati, Dio torna al primo posto e riempie di sé stesso lo spirito, l’animo di chi crede in lui. I mistici spagnoli del secolo decimo sesto, parlano della notte dei sensi, della notte dello spirito, sono nell’oscurità totale. Francesco non ha avuto mai questa notte, è stato sempre un uomo della luce.

La perfetta letizia non è nata dalle ombre interiori, ma è frutto della sua fede pienamente vissuta, la sua piena intimità divina che nessuna intromettenza umana viene più a turbare. Si può essere ancora totalmente uomini, ma non essere influenzati dalla propria umanità, dalla variazione del proprio umore o malumore, dalle voci e reazioni che attraversano il proprio animo, il cuore e la mente. Si è ancora uomini ma non si è umani, si è totalmente liberi da se stessi, dal peso della propria ignoranza, dal prestigio, dalle proprie richieste sconsiderate. "Vivo io, ma non sono io che vivo", diceva Paolo. Può dirlo anche Francesco. Non sono più io che vivo, ma è Dio, in fondo, che ha riempito il mio cuore, la mia mente, la mia vita. Sono, in fondo, un altro, che lo Spirito di Dio ricolma della sua luce, della sua vita, quindi, anche di altrettanta felicità e gioia. Essa è tale e tanta che nessuno può attenuarla e turbarla, tantomeno le insolenze di quel frate portinaio della Porziuncola, perché non scalfiscono nemmeno questo monolitico contatto con Dio.

La perfetta letizia non è di colui, che sopporta le sofferenze o le incomprensioni, ma di colui che le sopporta con giubilo, perché non lo toccano, non lo scalfiscono. Lui non è contento perché insultato, è contento nonostante che sia insultato. Può sembrare una contraddizione: Francesco è contento nonostante che l’abbiano cacciato dall’Ordine, nonostante che lo maltrattino i suoi amici, i suoi figli, è contento lo stesso perché questo maltrattamento non lo disgiunge dalla comunione con Dio. È questo il segreto ultimo della letizia, sentirsi protetto, non farsi scalfire dalle considerazioni malvagie o benevole dei vicini, degli amici o dei nemici.

Questa è la fonte della perfetta letizia, che non è facile a possedersi, e neanche tanto facile a capirsi.

Ortensio da Spinetoli


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