IL GIUBILEO CHE ASPETTIAMO
Il giubileo è un’istituzione più antica di quanto si sia ritenuto nei secoli ed ha un’origine che supera i confini della civiltà e della storia ebraica. Potrebbe essere opportuno prendere conoscenza delle sue differenti affermazioni pre o post israelitiche.
1. Nell’oriente antico.
Le più antiche testimonianze a favore del "condono" giubilare sembrano risalire al tremila a.c., ma sono più sicure quelle del periodo babilonese antico (2004 - 1600) provenienti dalle tavolette di Mari, di Terqa, di Nuzi, ecc.
Le situazioni sociali sono da sempre soggette a squilibri quando si creano accumuli terrieri nelle mani di pochi e ciò si verifica allorché i debitori insolventi vengono espropriati dei loro possedimenti e fatti essi stessi schiavi. Il fenomeno porta ad aumentare le file dei poveri e a restringere quella dei ricchi. L’oligarchia costituisce una minaccia costante della monarchia, allora il sovrano avvalendosi della sua autorità e soprattutto dell’investitura divina di tutelare la giustizia e insieme la sorte dei poveri, dei deboli, interviene per ristabilire l’ordine turbato dalle debite o indebite appropriazioni.
Il codice di Hammurabi, re di Babilonia (1792) afferma: "Perché il forte non opprima il debole; per far giustizia all’orfano e alla vedova; per rendere giustizia all’oppresso ho scritto le mie parole preziose sulla stele e l’ho drizzata davanti alla mia statua di re di giustizia".
L’editto che i sovrani di tanto in tanto si sentivano obbligati ad emettere per frenare le sperequazioni verificatesi nei loro domini si chiamava andurarum (=remissione). Si indiceva il tempo, l’anno della remissione che consisteva nel condono dei debiti, nella restituzione delle terre e nella liberazione degli schiavi.
In pratica cessavano le ipoteche sui beni sequestrati, che ritornavano ai proprietari, e sulle persone cadute in schiavitù per insolvenza.
Il diritto di proprietà appariva ed era inalienabile come la libertà personale; il privarne qualcuno costituiva un’interruzione dell’ordine delle cose, del loro andamento naturale. Era pertanto ingiusto ed il re che era il rappresentante della divinità ed il pastore e tutore del popolo, si sentiva costretto ad intervenire (v. Hamurabi). Ma non sono escluse le ragioni tattiche: ridurre o ridimensionare il potere dei "grandi".
L’andurarum si indiceva su proposta del re senza scadenze periodiche.
2. In Israele.
I legislatori ebraici (Esodo, Levitico, Deuteronomio) ripetono le stesse disposizioni dell’andurarum assiro-babilonese ma vi apportano due modifiche:
a) Il condono si ripete a scadenze fisse: ogni sette anni (anno sabatico) e ogni sette settimane di anni, ossia ogni cinquant’anni (anno giubilare). "Santificherai il cinquantesimo anno perché è giubileo" (Lv 25,10).
b) Abbraccia anche la terra che per un anno deve riposare. "Un anno di riposo assoluto", "completo" (Lv 25,3-5). "Non seminerai il tuo campo, non poterai la tua vigna; non mieterai, non vendemmierai" (ivi), tuttavia si potrà raccogliere quello che la terra produce spontaneamente e "servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e al forestiero che è presso di te" (Lv 25,6), compreso il bestiame (25,7).
Il giubileo non era in fondo che uno speciale anno sabatico (Lv 25, 8-17).
Il termine ebraico yôbel, tradotto da San Girolamo per assonanza con jubileus o jobeleus, da cui giubileo nelle lingue moderne, era il suono giulivo che i pastori producevano con il corno dell’ariete. Un tal suono allegro e festoso serviva per aprire l’anno giubilare ossia del riposo e della remissione (in ebraico deror). Il deror traduceva l’accadico andurarum. I testi che ne parlano sono Es 23,10-13; Dt 15,1-18; Lv 25,2-55; cfr. Is 61,1-3; Ge 34,8-22; Ez 46,16-18; Ne 5,1-15.
Il giubileo è un provvedimento umanitario e indirettamente ecologico anche se quest’ultimo aspetto è poco o affatto sottolineato. Le motivazioni che debbono indurre gli israeliti a rispettare tali disposizioni legislative sono naturali, storiche e religiose. La terra è di Dio ed egli la dona egualmente a tutti e a nessuno ne concede più di quanto fa al suo bisogno quindi qualsiasi appropriazione superflua è indebita come qualsiasi oppressione del proprio fratello è, oltre che ingiusta, empia. Gli israeliti sono tutti figli di uno stesso padre e gli stranieri debbono essere rispettati in memoria dell’esperienza che i discendenti di Giacobbe hanno passato in terra straniera (Egitto) Es 23,9 "anche voi foste forestieri in Egitto".
"tutta la terra è mia, voi siete ospiti sulla terra" dice il Signore, Es 19,5;
"Egli l’ha assegnata, non si possono prevaricare le sue disposizioni" Dt 10,14.
3. Nel Nuovo Testamento.
Nella predicazione di Gesù come i quella dei suoi primi discepoli, quindi nei vangeli, nelle lettere e negli altri scritti neotestamentari, non si fa menzione dell’anno sabatico, né dell’anno giubilare.
Vi si può vedere un’allusione in Lc 4,19 dove la missione di Gesù è definita come "un anno di grazia del Signore". Alla lettera "un anno accettevole (dekton) davanti al Signore". Ma soprattutto qui è fatto riferimento alla "liberazione dei prigionieri, degli oppressi" e all’evangelizzazione dei poveri, in qualche modo agli obiettivi propri dei giubileo. Per Luca, "l’evangelista dei poveri", l’opera di Gesù consiste nel dare avvio ad un vero, grande, definitivo "esodo" di tutti i sofferenti, i perseguitati, gli schiavi verso la libertà. In altre parole la "redenzione" che è chiamato a portare si identifica innanzitutto con la liberazione e promozione degli uomini, oltre che con la loro rappacificazione con Dio.
Il Nuovo Testamento adopera anche una terminologia che ricalca o ripete le proposte giubilari. Il verbo "rimettere" che ritorna 146 volte e le frasi "rimettere i peccati" o "i debiti" provengono da tale contesto. Alla stessa nomenclatura risale verosimilmente l’espressione relativa a Gesù "che dà la vita in riscatto per molti" (Mc 10,45; Mt 20,28).
Tuttavia dell’intento centrale dell’anno giubilare ordinato a riequilibrare gli eventuali squilibri sociali non si fa nessuna parola.
Forse al tempo di Gesù le pratiche dell’anno sabatico e giubilare, data la subordinazione plurisecolare del popolo israelitico a dominatori stranieri, non erano da tempo più in uso.
4. Nella chiesa.
La tradizione cristiana per oltre un millennio ha ignorato l’istituto giubilare. Se ne parla, come si sa, la prima volta nel 1300 quando il pontefice Bonifacio VIII propone di celebrare il (primo) "anno santo" nella storia cristiana (1291 caduta di San Giovanni d’Acri). Esso tuttavia non fa riferimento alla prassi giudaica, ma alla nascita di Gesù e alla sua morte (detentiva).
La parola giubileo non è ufficialmente adoperata. In concreto si tratta di celebrare uno speciale compleanno del salvatore, un anniversario della sua venuta al mondo e della sua fine ingloriosa ma salutare per l’umanità.
È una celebrazione, quindi innanzitutto una manifestazione gioiosa, esultante. Il condono è spostato sul piano spirituale, consiste nella remissione dei peccati, nella liberazione dalla schiavitù della colpa. Un perdono, un’assoluzione che si possono ottenere non ogni sette o ogni cinquant’anni, ma sempre in ogni momento che si vuole. La chiesa ha il potere di accordare una tale riabilitazione ogni qualvolta il peccatore lo desidera e lo chiede, tuttavia si possono stabilire circostanze speciali, in periodi particolari (avvento, quaresima) o addirittura "anni speciali" dedicati alla revisione della propria condotta e se necessario alla propria conversione.
È la genesi dell’"anno santo", un tempo di conversione e di riconciliazione con Dio e con i fratelli.
a) C’è una promulgazione solenne, ufficiale; si crea un clima di tensione spirituale, di incontri con la parola di Dio per ingenerare nell’animo dei fedeli sensi di pentimento e propositi di rinnovamento. È un ritiro, sono esercizi spirituali di lunga durata. Un anno santo anche in questo senso, diverso dagli altri perché si pensa più a Dio, ai problemi dello spirito, alla vita eterna.
b) La volontà di conversione è segnalata anche da pratiche penitenziali: i pellegrinaggi, la visita quindi ai luoghi santi, alle tombe degli apostoli, per ottenere più agevolmente il perdono dei peccati e l’alleggerimento o la cancellazione della pena con essi meritata (indulgenza).
La chiesa dal 1300 al 1975, per circa 700 anni, periodicamente, ogni cento, cinquanta, venticinque anni, ha ripetuto questa celebrazione giubilare e si appresta allo stesso modo a solennizzare l’inizio del III millennio.
c) Il giubileo del 2000.
Nell’annunzio c’è innanzitutto un cambiamento di terminologia. La chiesa parla esplicitamente del giubileo, riportandosi alla definizione ebraico-biblica, ma lascia intatte tutte le strutture e strutturazioni dell’anno santo, il pellegrinaggio, le pratiche penitenziali, la conversione, la remissione dei peccati (confessione) e persino le "indulgenze".
C’è tuttavia una differenza con gli anni santi del passato: il recupero della sua dimensione sociale.
La chiesa ha preso coscienza che il vero giubileo comincia nel condono dei debiti, nella liberazione degli schiavi e nella restituzione dei beni (le terre) e l’ha almeno inserito, se non nei suoi programmi di vita interna (riduzione, ristrutturazione, conversione dei suoi apparati) almeno in alcuni tratti della sua predicazione, levando la voce a favore dell’estinzione del debito estero dei popoli poveri, in altre parole della liberazione o libertà degli oppressi.
La libertà della chiesa dove questa è in minoranza è un capitolo ribadito in vari toni, ma la libertà nella chiesa è un tema sconosciuto, improponibile poiché essa si è sempre professata e si professa tuttora monarchica, nel senso di un’organizzazione centralizzata priva di riscontri democratici.
Il giubileo del 2000 segna un’evoluzione anche se piccola nei confronti di quello del 1975 che si presentava ancora come "una rassegna dei trionfi della chiesa", intesa "a rialzare o innalzare il morale dei credenti e a imprimergli la convinzione e la gioia di appartenere a una grande istituzione mondiale, collaudata da venti secoli di storia, più travagliata che felice, ma feconda sempre di energie nuove, di popolo numeroso, di uomini insigni, di figli devoti, di risorse impreviste" (Paolo VI: v. La conversione della chiesa, Assisi, 1975, pag. 9).
La chiesa potrebbe celebrare il suo vero giubileo, il ritorno all’essenzialità evangelica, in pratica alla pura testimonianza di Cristo e della generazione apostolica, chiudendo in parentesi due millenni di storia, e riprendendo un nuovo sentiero, quello delle catacombe, delle favelas, del deserto, dei poveri, degli oppressi. Non di una sua riforma, ma di una sua rifondazione si dovrebbe parlare, per riprendere la strada di Cristo (cfr. Chiesa delle origini, chiesa del futuro, Borla 1986).
Allora l’alternativa che si affaccia e che sembra imporsi con urgenza è quella di una grande abiura: "Questa è stata la nostra comunità ecclesiale, una potenza alla stregua delle altre che si sono diviso il potere sulle genti, ma in futuro, dal 2000, vorrà essere un’altra, più cristiana che mondana".
Una svolta a cui purtroppo nessuno dei vertici che hanno indetto e dirigono il giubileo pensa, ma che è nei voti di molti e che forse lo Spirito di Dio prepara per gli uomini del nuovo millennio, dopo questi ultimi, stereotipi sprazzi di trionfalismo.
d) Il giubileo che noi aspettiamo.
La nostra celebrazione giubilare dovrebbe innanzi tutto richiamarsi alla concezione biblica e recuperare i suoi aspetti essenziali: mirare cioè alla liberazione dell’uomo ed alla liberazione della terra.
Nei confronti dell’annunzio ufficiale della chiesa che si preoccupa soprattutto della condizione e conversione spirituale dell’uomo, quindi della "remissione dei peccati" e successivamente o occasionalmente si fa non promotrice, ma solo propositrice, della remissione dei debiti dei popoli poveri (nei confronti dei popoli ricchi, non dei propri istituti bancari) questa impostazione biblica mette in primo piano e al primo posto la libertà degli uomini, non tanto di fronte a Dio, davanti al quale non ci sono schiavi, ma nei riguardi dei propri simili, cioè dei signori detentori del potere economico, politico o spirituale che consentono agli ultimi, ai non abbienti, ai piccoli, ai poveri neanche di esprimersi, tanto meno di far valere le loro opinioni.
A) È un grido (generico) di libertà. La libertà è la nota specifica dell’essere ragionevole; essa non piace ai despoti perché non amano vedere al loro fianco persone che possono fare loro ombra; non piace neanche alla gerarchia che preferisce gestire a proprio piacere e a proprio comodo i beni di tutti e dei quali a tutti è demandata la tutela e l’amministrazione.
Dio ha creato l’uomo libero e non ha accordato a nessuno l’incarico di avocare a sé i talenti dati in consegna a ciascuno dei suoi figli (cfr. Mt 25,14-30). La libertà non è arbitrarietà, ma la facoltà di contribuire nei modi consoni a ciascuno al bene di tutti, senza che ingerenze indebite vengano a frustrarne l’apporto.
Le "vedute" o le "ragioni" migliori, nel caso che ve ne fossero alcune migliori di altre, si affermano con la logica della riflessione, non della forza.
Il discorso sulla libertà è inesauribile. In ogni tempo della storia e in ogni forma di convivenza c’è sempre stato qualcuno o alcuni che non l’hanno rispettata, ma la peggiore delle coincidenze è che tale sopruso sia stato compiuto in nome della divinità: di Ammone, di Jahve, di Gesù Cristo o di Allah. La prepotenza delle religioni e dei religiosi è il capitolo più inspiegabile della storia umana. Non per nulla Rosmini ha definito la "gerarchia" una delle "cinque piaghe della chiesa".
Gesù ha obbedito ai genitori (cfr. Lc 2,50), al Padre (Gv 8,29), allo Spirito di Dio ma si è rifiutato di sottostare alle ingiunzioni delle autorità religiose del paese e per questo è stato condannato.
Francesco di Assisi è stato un figlio ubbidiente della chiesa, viene giustamente ripetuto, ma di quella chiesa che ha capito e rispettato il suo carisma. Ha conosciuto semplici sacerdoti, bassi ed alti prelati, ma da nessuno di essi si è lasciato guidare. Solo il Signore gli ha rivelato che cosa dovesse fare (Testamento).
Il francescano non è chiamato a distruggere la società, la chiesa, ma non può dare il suo avallo alle sopraffazioni, alle ingiustizie che si commettono nell’ambito di quella comunità in cui egli vive ed è parte.
Inviato a Barbiana, luogo d’esilio e di semiprigionia dei preti "indocili", don Milani si è mosso senza reazioni e si è persino rifiutato di prendere prima visione del luogo dove veniva relegato. "Vado dove l’autorità mi ha mandato", fu la sua risposta all’incaricato vescovile che era venuto a comunicargli la nuova destinazione, ma con ciò non abdicava al suo connaturale diritto di continuare a pensare liberamente e se occorreva a sottolineare i difetti di quella chiesa a cui pure fortemente credeva. Basta rileggere la lettera scritta a don Bartoletti appena fatto vescovo (Bibbia e catechismo, Paidea 1999, p. 385).
La libertà non può essere venduta a nessun prezzo. "I figli che osano rimproverare la propria madre non l’amano meno di quelli che per falsa pietà o per opportunismo le celano i propri mali" (La conversione della chiesa, frontespizio).
L’umiltà è una virtù cristiana e francescana, ma non si identifica con la pusillaminità. Francesco non si arrende davanti alla prima, dura accoglienza di Innocenzo III ("Vatti ad avvolgere nella melma e poi ritorna"); né al rifiuto del vescovo di Imola ("Ai miei preti basto io"). Cacciato dalla porta principale rientra attraverso quella secondaria. Tutto sta nel non perdere la pazienza, non lasciarsi prendere dal risentimento o dall’ira.
Gandhi è un maestro di resistenza cristiana e francescana. Ha sollevato un’intera nazione senza alzare un dito contro chicchessia, né i nemici esterni né contro quelli interni e ha vinto la guerra senza fare alcuna battaglia, armata s’intende.
La libertà degli uomini, dei popoli è un sogno, un’utopia ma è un’utopia a cui il credente, più ancora il cristiano non può rinunciare e dalla quale Gesù e Francesco si sono lasciati interpellare e guidare. L’uomo non è felice se abdica alle sue capacità e naturali attitudini; se non costruisce, non realizza, non inventa.
Il francescano ha impugnato sempre la bandiera della povertà, pur vivendo se non lautamente, comodamente; dovrebbe prendere e tenere alta anche quella della giustizia, ma non accademicamente bensì concretamente inserendosi a favore degli oppressi contro gli oppressori. Le diatribe scolastiche sui diritti umani hanno poco valore; occorre prendere posizione e parte attiva contro le situazioni ingiuste esistenti nel proprio contesto esistenziale per potersi dire sostenitori della giustizia e di quella pace che Gesù invoca nel discorso della montagna.
B) La liberazione dell’uomo, degli uomini è un programma già grande, si potrebbe aggiungere inarrivabile, ma l’indizione giubilare vuole richiamarne un altro ancora importante, allineato con il tema della libertà, riguardante il rispetto verso gli esseri con i quali l’uomo convive, a cominciare dalla comune madre terra.
Da troppo tempo e con il beneplacito degli stessi teologi l’essere ragionevole si è considerato il re del creato e ha ignorato quando non ha calpestato i diritti e la dignità dei suoi ipotetici sudditi.
La "terra" ha avuto ed ha troppi nemici e sono i suoi "figli", proprio quelli che avrebbero dovuto proteggerla, onorarla, amarla. Il catechismo della chiesa cattolica impiega varie pagine a riproporre problemi teologici sulla creazione "dal nulla" o "ab aeterno" e non ha sembra una parola sulle creature, sulle attenzioni e sulle cure che si aspettano dai loro compagni di viaggio, dai fratelli così detti più intelligenti. Questa comune famiglia di piante e di animali non è stata mai guardata amorevolmente dal credente che pure le assegna una provenienza comune alla sua. "La creazione, afferma Paolo, attende ansiosa la sua liberazione, insieme alla manifestazione della gloria dei figli di Dio" (Rm 8,19-23).
L’ecologia è una branca della cosmologia, ma per il credente lo è anche della teologia, quella delle realtà terrene, che è stata una delle grandi "intuizioni" di Francesco, una delle consegne, accanto all’invito alla "fraternità", alla "pace", alla "letizia", al "dialogo" interreligioso, lasciata ai suoi seguaci (cfr. Francesco: L’utopia che si fa storia, Cittadella, Assisi 1999, pp. 134-172).
I francescani che non lottano contro la povertà, le ingiustizie, il dissesto ambientale, quindi per la promozione, il rispetto del creato, ma che passano il loro tempo a ossequiare il Signore e allo stesso modo i signori, a tener compagnia ai militari invece di dissuadere dall’uso delle armi, non si vede per quale ragione facciano riferimento a san Francesco che parlava "fraternamente" al lupo di Gubbio e ai ladri di Montecasale, ma rifiutò di uscire dal suo dormitorio di Rivotorto per andare solo ad osservare il corteo dell’imperatore Ottone IV che passava nei dipressi e non volle che vi andassero i suoi frati eccetto uno che arrivasse a dire al monarca che la "sua gloria sarebbe durata ben poco".
Conclusione.
La celebrazione dell’anno giubilare ha una sua giustificazione se serve a ridare una presa di coscienza della propria vocazione umana, cristiana e francescana.
Iddio non chiederà conto all’uomo se non ha conosciuto o riconosciuto il mistero trinitario, la regalità di Cristo o la sua unione ipostatica, tutte "verità" più o meno relative, gratuite, ma se non si è impegnato per il compimento della sua volontà. E quello che sicuramente egli vuole è l’attuazione del suo progetto creativo (il bene dell’universo) e salvifico (il bene dell’uomo). Solo chi coopera efficacemente a far scomparire i triboli e le spine dalla faccia della terra ed a eliminare i disagi, materiali e spirituali, che affliggono l’esistenza umana è un vero credente, un cristiano, un francescano. "Quando, Signore, ti abbiamo visto ignudo, affamato, carcerato" gli diranno "quel giorno", sorpresi, gli interpellati. "Quando l’avete fatto ad uno di questi piccoli fratelli" è la risposta.
Francesco aveva dato un posto, nei suoi riferimenti, oltre che a Dio, all’uomo, alle sorelle allodole, a fratello sole, alle erbe, ai fiori. Voglia Iddio che i francescani siano uomini se non di questo stampo almeno degni della sua sequela.
L’esodo è una pratica profetica, prospettiva aperta sul futuro dell’uomo e della storia; il giubileo un programma rivoluzionario che suggerisce le modalità per attuarle ridando a ciascuno la dignità ed il posto che Dio gli ha assegnato.
Dall’incontro avvenuto in Albugnano, 21 novembre 1999 Ortensio da Spinetoli