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Giannino Piana POVERTA’ COME CONDIVISIONE maggio 97

Dalla relazione di Giannino Piana su Il cristiano e i beni, tenuta ad Albugnano il 26 gennaio ’97.

Cercheremo oggi di chiarire quale può essere il giusto rapporto del credente con i beni economici, facendo riferimento in modo particolare al messaggio che ci viene dalla rivelazione, sia nella Scrittura ebraica che nel Nuovo Testamento; cercheremo poi di attualizzare questo messaggio nella situazione attuale, per evidenziare la categoria della povertà in riferimento al nostro contesto storico, sociale e culturale.

Il messaggio biblico è più complesso di quello che ci si potrebbe aspettare, e per certi aspetti anche ambivalente: il concetto di povertà attraversa tutta la rivelazione biblica, quella vetero e quella neo-testamentaria, e si riferisce ad un atteggiamento che è considerato fondamentale nella rivelazione per aprirsi a Dio, per riuscire ad accogliere l’attesa; attesa dei tempi messianici, nel vecchio testamento, e del regno di Dio nel nuovo. Tuttavia, perché possa essere accolto e fruttificare nelle coscienze, bisogna aprirsi al messaggio con gli atteggiamenti giusti, dei quali forse il più importante è proprio quello della povertà.

Ma la categoria della povertà si presenta nell’antico testamento in modo ambivalente, emergendo sia come benedizione che come maledizione. Quest’ultima si riferisce a quel livello di povertà che potremmo chiamare miseria, cioè assenza dei livelli fondamentali per la sopravvivenza, assenza dei beni indispensabili per la possibilità di espressione e di realizzazione di sé in senso pienamente umano. Questa povertà, nel senso della miseria, è severamente condannata soprattutto dai profeti, che la connettono al male e al peccato: l’ingiustizia, la sperequazione dei beni, l’accumulo da parte di alcuni e la sottrazione degli stessi beni ad altri, sono all’origine della povertà; allo stesso modo viene anche condannata la pigrizia e l’incapacità di far fruttificare i beni della terra in modo da ricavarne la possibilità per tutti di soddisfare i fondamentali bisogni umani.

Considerata da questo punto di vista, su un piano strettamente orizzontale, la povertà viene considerata una maledizione. Notiamo che questo accento fortemente negativo sulla povertà identificata con la miseria viene sottolineato come maledizione soprattutto nelle prime fasi dell’antico testamento, quando è ancora molto stretta la connessione fra l’essere giusti, l’osservare la legge, il rispettare il disegno di Dio e il godere di beni materiali: il giusto ha come eredità la terra, intesa come insieme di possibilità di autorealizzazione anche attraverso i beni economici, poiché non c’è ancora nei primi libri dell’Antico Testamento l’idea di una retribuzione al di là della vita, e nemmeno l’idea stessa dell’aldilà.

Allora il legame molto stretto fra l’osservanza della legge, come adesione al progetto di Dio, e i beni della terra con la prosperità fisica ed economica, fa sì che la povertà, intesa come assenza di beni materiali, venga considerata una maledizione, un frutto del peccato.

Chi non ha potere può avere fiducia in Dio

Accanto a questa valenza negativa viene poi dispiegandosi nell’A.T. in termini sempre più significativi anche l’altro significato della povertà, in termini diversi e positivi. Infatti essa è considerata soprattutto uno stato sociologico, non quello della miseria, ma quello della limitazione dei beni e delle risorse materiali connesso all’assenza di potere. Gli ananim, i poveri, nell’A.T. sono coloro che non hanno potere, né quello economico, né quello sociale e politico che gli è profondamente connesso Tale collegamento è presente anche nella società di oggi: le varie forme di povertà che registriamo nella nostra società sono certamente di natura diversa da allora, ma alla radice c’è sempre un elemento economico che gioca in maniera decisiva e determinante..

La povertà nell’A.T. è vista come assenza di potere, sia sui beni che sulle persone: il termine ananim significa letteralmente curvati, quindi evoca dipendenza, mancanza di potere, non identificabile con la miseria. La povertà in questo significato viene vista, soprattutto dai profeti, come una condizione per aprirsi ad una salvezza che non viene da se stessi ma viene dall’alto. La povertà, che è innanzitutto una condizione sociologica, diventa una attitudine religiosa.

Il fatto di non avere potere, di non poter riporre nelle proprie possibilità la salvezza, fa sì che l’uomo possa essere pronto a ricevere una salvezza che viene dall’alto. I poveri di YHWH sono coloro che attendono la salvezza, che verrà nei tempi messianici quando Dio manifesterà completamente la sua signoria sulla storia degli uomini.

Già nell’A.T. si intrecciano nel concetto di povertà un aspetto più propriamente sociologico, che ha a che fare con i beni economici, con uno più squisitamente religioso. La situazione economica o sociale tuttavia non provoca necessariamente l’insorgere di questa attitudine religiosa, ma ne è una condizione necessaria: il povero è colui che, appartenendo a questa schiera dei senza potere, vive questa esperienza caricandola di un significato religioso. Non vive la povertà in termini di disperazione o di rifiuto radicale, ma come un’occasione per accedere ad una salvezza che non può venire solo da lui, evitando ogni tentativo di autogiustificazione e ogni presunzione di potersi pienamente salvare da solo.

Questo duplice aspetto della povertà come stato socio-economico ed attitudine religiosa si ritrova anche nel Nuovo Testamento. La beatitudine della povertà ci viene riferita in due versioni diverse: in Luca è collocata nel discorso della pianura, contrapposto ma molto simile a quello della montagna di Matteo. Luca propone quattro beatitudini e quattro maledizioni, di cui la prima è beati voi poveri, così come la prima maledizione sarà guai a voi ricchi; il numero otto ricorre sia in Luca che in Matteo, ma Matteo propone otto beatitudini, cominciando dal beati i poveri di spirito.

La beatitudine della povertà è la prima in entrambe le versioni, ma la formulazione di Luca è probabilmente la più antica, la più vicina alle precise parole pronunciate da Gesù, ed è espressa in un discorso diretto (beati voi poveri), più fortemente personalizzato che non la beatitudine proposta da Matteo. È proprio questa doppia versione che ha fatto nascere molti equivoci interpretativi sulla povertà, con le opposte tendenze a materializzare fortemente la povertà (seguendo Luca) oppure a spiritualizzarla ( con Matteo).

Ma le parole di Matteo vanno lette nel senso indicato dalla tradizione veterotestamentaria: beati i poveri, sociologicamente parlando, che sono coscienti del valore positivo della loro assenza di potere materiale, come possibilità di apertura alla fiducia in Dio; in spirito viene allora tradotto nel senso della consapevolezza positiva di una povertà socio-economica che non dà automaticamente la salvezza, ma che può essere vissuta positivamente per accogliere il regno di Dio.

Nella versione lucana c’è un più diretto accento sull’aspetto socio-economico: Gesù ha di fronte della povera gente, che non ha nessun potere né possibilità economiche, e si rivolge a loro col beati voi, sottolineando così la loro situazione di base. Matteo invece media più direttamente con l’esplicitazione di quell’attitudine interiore che fa essere la povertà, in senso evangelico, una condizione per aprirsi ad una salvezza che viene soltanto da Dio, un’occasione per superare la presunzione dell’autosalvezza. L’evangelo è allora la proposta per evitare quell’atteggiamento di chiusura su se stessi che porta a non riuscire a cogliere i segni del regno, e soprattutto a non accogliere Dio che viene.

La ricchezza genera idolatria

Anche nel N.T. troviamo un’immagine della povertà in cui viene coniugato l’aspetto economico-sociale con quello religioso, dove l’attitudine religiosa è quella decisiva, ma non può esistere senza l’altro aspetto; quindi qualsiasi visione puramente materiale della povertà contraddirebbe questa idea complessiva della povertà evangelica, che non è riducibile solamente ad uno dei due aspetti, nemmeno a quello puramente religioso.

Ne troviamo conferma nel modo in cui viene sviluppato, nel N.T., il tema della ricchezza: il guai a voi ricchi rappresenta un condensato della morale di Gesù, che si accosta alla contrapposizione molto forte che si fa tra Dio e mammona (non si può seguire Dio e la ricchezza); ricordiamo anche le parabole che evidenziano la gravità del possesso dei beni inteso come possesso esclusivo e totalizzante. Per esempio la parabola di Lazzaro e del ricco, con l’impossibilità assoluta di salvezza per il ricco, dove sembra che il cuore di Lazzaro sia più misericordioso del cuore di Dio; o pensiamo alla famosa frase "è più facile che un cammello entri...", e ancora la parabola dello stolto che accumula nel granaio e sente la voce di Dio che gli dice: "stolto, stanotte morirai".

Nel vangelo la povertà, definita dai due elementi dello stato economico-sociale e dell’attitudine religiosa, è condannata innanzitutto perché provoca ingiustizia e sperequazioni, perché impedisce che tutti possano realizzarsi; l’accumulo eccessivo di beni da parte di alcuni determina sia processi di povertà in senso negativo, impedendo ad altri la possibilità di accedere ai beni fondamentali, sia meccanismi di dipendenza, nel senso che l’eccesso di potere genera poi una situazione di schiavitù. Quindi si può dire che l’accumulo è condannato innanzitutto sul versante socio-economico, ma più radicalmente è condannato da Gesù perché accanto all’ingiustizia sul piano dei rapporti umani, provoca incapacità di aprirsi a Dio, da parte dell’uomo, cioè provoca idolatria, "perché dov’è il tuo tesoro là è il tuo cuore".

In fondo, colui che accumula e possiede, in definitiva è posseduto, perché tutto sommato i beni diventano un idolo (una priorità, diremmo oggi), mammona contrapposto a Dio; quindi la ragione profonda della condanna dell’accumulo è religiosa: la ricchezza genera idolatria, genera l’incapacità dell’uomo di attendere la salvezza dall’Altro, la fiducia esclusiva in se stessi; colui che possiede molto finisce per affannarsi a possedere sempre di più, fino al punto di non essere più libero.

Allora diventa chiaro che nel vangelo la povertà non si può ridurre né a puro stato socio-economico né a pura attitudine interiore; inoltre la ricchezza è condannata sia per le conseguenze sociali, sia per l’atteggiamento religioso negativo che genera, spingendo l’uomo verso l’idolatria. La povertà evangelica definisce allora uno stato socio-economico che è condizione per l’acquisizione di un atteggiamento religioso, interiore, di apertura e di accoglienza al messaggio che viene da Dio.

Un Dio povero accanto all’uomo

La ragione ultima della beatitudine della povertà, dal punto di vista biblico neotestamentario, sta nel fatto che noi facciamo esperienza, sia come cristiani che come ebrei, di un Dio che si è rivelato nella storia come un Dio povero. Il credente è chiamato a vivere la povertà perché sa che Dio non si è manifestato nella storia nel segno dell’onnipotenza, ma in quello dell’impotenza e della povertà; e perché a questo Dio non va solo un’adesione formale, ma Egli diventa il paradigma delle scelte e dei comportamenti del credente: la povertà quindi trova la sua radice ultima nella povertà di Dio.

Questo Dio non si manifesta nella storia come il dio del potere politico; né, come intendevano la divinità i greci e i romani, nel segno del potere; e nemmeno si presenta messia liberatore, pensavano gli ebrei, colui che restituirà ad Israele l’autonomia e il primato perduto. Dio non si presenta come colui che attraverso la potenza spiega la realtà nella sua totalità, né come il dio metafisico a cui i greci erano arrivati soprattutto attraverso la filosofia.

Paolo nelle due lettere ai Corinzi mette bene a fuoco la contrapposizione che esiste tra questa filosofia di Dio, presente tanto nel mondo greco che in quello giudaico, e la rivelazione che di Dio avviene in Gesù Cristo: Dio si manifesta nel segno dell’impotenza, nello scandalo della croce.

Nella mistica ebraica c’è un filone molto ricco, che poi è stato ripreso dalla mistica cristiana, che vede l’atto della creazione del mondo da parte di Dio non come un gesto di onnipotenza, ma di ritiro da parte di Dio, di rinuncia ad una parte della sua onnipotenza nel momento stesso in cui crea il mondo e lo affida all’uomo: Dio non esercita più un controllo totale sulla realtà, ma chiama altri ad esercitarlo al suo posto, con un percorso di progressivo Suo ritrarsi dalla storia concreta. Quindi anche la creazione, che è sempre stata letta nel segno dell’onnipotenza, può anche essere letta nel segno dell’impotenza: Dio accetta che l’uomo gestisca il mondo, anche sapendo che non sempre andrà nella direzione giusta.

Anche lo stesso concetto di alleanza esprime l’idea del riavvicinamento di Dio all’uomo dopo che egli si era allontanato da Lui. Questo Dio che si mette vicino all’uomo, continua però ad essere un Dio lontano, altro, diverso, inaccessibile; pensiamo ai primi comandamenti: non ti farai immagine alcuna, addirittura non mi nominerai, perché sono totalmente altro, non mi puoi catturare, né con la parola né tantomeno con le immagini. Anche qui Dio ricorda all’uomo che la responsabilità della gestione del mondo resta a lui: in fondo la secolarizzazione nasce da qui, da questo non immischiarsi di Dio nelle dinamiche della vita e della storia, perché la storia, anche se in ultima analisi emanazione di Dio, è lo spazio riservato all’uomo.

Ma la manifestazione più alta della kenosis di Dio (impotenza, annientamento, rinuncia al potere) l’abbiamo soprattutto nel N.T. attraverso la venuta di Gesù, nel mistero dell’incarnazione, dove appunto Dio accetta di limitarsi nello spazio e nel tempo, condividendo la natura umana con tutti i limiti che essa contiene.

Nell’incarnazione allora Dio rinuncia al proprio potere per fare della propria vita un servizio all’uomo; infatti Gesù invita i discepoli a non fare "come i potenti di questo mondo, che mandano ai sudditi i loro ordini; ma tra voi non sia così, anzi il primo agisca come se fosse l’ultimo, per essere simile al figlio dell’uomo che è venuto non per essere servito ma per servire e dare la vita".

La rivelazione così come ci è stata offerta attraverso l’incarnazione e la morte di Cristo, ci dice che il Dio cristiano è un Dio povero e dedito agli altri, e sottolinea come la povertà, così come la manifestazione di Dio sulla croce, è la rivelazione più alta di Dio come amore. Non è uno spogliarsi di potere fine a se stesso, ma finalizzato al servizio e al fare della propria vita un dono. Questo è il senso profondo della povertà, che si collega strettamente alla carità: "non c’è amore più grande di colui che dà la propria vita per i fratelli".

 

La povertà del cristiano

Da questa lettura teologica della rivelazione, che costituisce il fondamento ultimo della povertà evangelica, emergono tutte le interpretazioni che nel corso della storia della chiesa si sono date della povertà. Nel corso della sua vita, la chiesa ha vissuto in certi momenti la tentazione di ridurre la povertà a puro stato sociologico, trascurandone l’aspetto di fede, in altri di spiritualizzarla sganciandola completamente dalla situazione concreta.

La prima tentazione è già evidente nei padri della chiesa, e poi ritorna nel medioevo, con un tentativo di identificare la povertà con il pauperismo, collegato a sua volta con una visione negativa di tutto ciò che è materiale: i beni della terra sono considerati negativi e rifiutati, perché indurrebbero al peccato, e la povertà si identifica con il maggior abbandono possibile di ogni bene, possibilità di sopravvivere facendone il più possibile a meno.

Dalla parte opposta troviamo, soprattutto con Agostino, la spiritualizzazione di tutto il discorso, interpretando la povertà come valore cardine di tutto il cristianesimo (in fondo le altre beatitudini sono riassunte nella prima) ma vista nella sua valenza esclusivamente interiore, come attitudine religiosa e disponibilità a lasciarsi guidare da Dio; ciò indipendentemente dal possesso di beni materiali, anzi spesso in situazioni di abbondanza di beni economici e di potere. Si diceva: non conta tanto la quantità di beni posseduti, quanto il fatto di avere il cuore libero. Ma è proprio questo che sembra denunciare il discorso evangelico, l’impossibilità di avere il cuore libero laddove i beni sovrabbondano.

Questa è stata l’oscillazione nella storia del cristianesimo, da una eccessiva materializzazione della povertà che nasce da una visione negativa dei beni, ad una esclusiva spiritualizzazione che prescinde dallo stato socio-economico. Ci sono anche state alcune correnti ereticali che hanno profondamente reagito nei confronti di una chiesa che è andata accumulando beni e potere, come i fraticelli, gli albigesi e i valdesi; erano sia movimenti pauperisti che si muovevano nell’ottica del rifiuto di qualsiasi possesso, sia altre correnti che denunciavano la spiritualizzazione eccessiva della povertà. Al contrario questa concezione esclusivamente spirituale era dominante e teorizzata nell’istituzione ecclesiale, che si difendeva dicendo che la vera povertà non è avere poco, ma gestire bene ciò che si ha. La doppia tentazione emerge continuamente nella storia, dove si osserva un’incapacità di mediare correttamente i due aspetti.

Oggi a noi pare che tutto lo sviluppo della tradizione cristiana, a partire dai primi secoli fino ad oggi, collega strettamente la povertà evangelica con tre finalità delle quali di volta in volta viene accentuata l’una o l’altra. La prima è la povertà per la sequela, cioè finalizzata soprattutto all’essere discepoli, nel seguire un Maestro che è appunto il Dio della kenosis, dello spogliamento radicale, quel Gesù che chiamava i suoi discepoli a seguirlo dicendo: chi vuole seguirmi prenda la sua croce, perché chi perde la propria vita la troverà. Ma diceva anche: le volpi hanno la loro tana, gli uccelli il nido, ma il Figlio dell’uomo non ha neppure un sasso dove posare il capo; quindi la povertà è necessaria per imitare il Maestro. Sequela che non è pura imitazione esteriore, ma condivisione di tutta la vita, così come i discepoli al tempo di Gesù andavano dietro di lui condividendone la vita.

Il secondo aspetto è la povertà per la carità: in una dimensione orizzontale di rapporti umani, a partire dalla considerazione che i beni sono limitati, i cristiani sottolineano che il possesso eccessivo di beni da parte di pochi finisce per sottrarre a molti altri quei beni necessari per la sopravvivenza, o almeno per lo sviluppo di una vita dignitosa. Potremmo anche chiamarla "povertà per la giustizia", in quanto la carità include la giustizia come equa distribuzione dei beni, anche se la carità va oltre perché supera il diritto e si muove nella prospettiva del puro dono.

La terza finalità è la povertà per la libertà, nel senso che la ricchezza viene condannata, a partire dalla Bibbia, in quanto chiude il cuore dell’uomo su se stesso, e le condizioni che sembrano sviluppare il massimo di libertà producono invece schiavitù, dipendenza ed incapacità di vivere in profondità la ricerca dei valori importanti. L’eccessiva abbondanza, se per un verso può creare appagamento, per altro verso crea una situazione di affanno, di continua tensione, di continuo assorbimento intorno al possesso, per conservarlo o per espanderlo, impedendo di cogliere altre dimensioni dell’esperienza umana.

A seconda della concezioni del valore dei beni e della loro valutazione più o meno positiva, ci si spinge più in una direzione o nell’altra. Ma queste tre categorie rappresentano ciascuna un elemento di definizione della povertà: essa deve essere per la sequela, per la carità e la giustizia, e forse deve essere ciò attorno a cui ruota tutto; povertà per la libertà di conservare questo cuore aperto, sgombro da forme opprimenti di schiavitù, che impediscono all’uomo di aprirsi all’altro, e di aprirsi a Dio.

Povertà e condivisione

Quale deve essere allora oggi, alla luce di queste riflessioni, il rapporto con i beni economici? Abbiamo già visto che la povertà evangelica non si esaurisce nel suo aspetto economico e sociale, ma evoca una dimensione più alta, quella dell’apertura e della fiducia in Dio, cioè la dimensione di fede.

Ma bisogna partire dalla rilevanza dell’aspetto socio-economico della povertà; in negativo si potrebbe dire che la povertà non è rifiuto del possesso dei beni. Non lo è perché il cristianesimo non guarda con sospetto ai beni in se stessi, come fossero qualcosa di cattivo; i beni della terra sono frutto della creazione, sono dono di Dio all’umanità.

A tutta l’umanità, non solo a pochi: come diceva S.Ambrogio, se accumuliamo troppi beni e vediamo il povero in condizioni di miseria, non dobbiamo per gratuita disponibilità interiore fargli omaggio di ciò che ci avanza, ma semplicemente gli dobbiamo restituire ciò che gli abbiamo indebitamente sottratto; la terra è di tutti, non solo dei ricchi.

Il cristianesimo non rifiuta i beni nemmeno per un motivo più sottile, per il quale la povertà, come sequela di Cristo, imporrebbe a ciascuno di cercarsi la croce: non siamo masochisti, e Gesù non ci chiede di andarci a cercare una croce, ma di accettare quelle che la vita ci propone. Ogni tentativo autodistruttivo di negare i processi di autorealizzazione, che sono pienamente legittimi, non è cristiano; il cristianesimo è la religione della gioia e della realizzazione di sé. Poi bisogna fare i conti con la croce, che va accettata e integrata al centro della nostra vita, con le relative difficoltà, croce che acquista un senso nella fede vicino alla croce di Cristo; egli ha trasformato ciò che umanamente è un non-senso in qualcosa di sensato, dando valore a ciò che umanamente parlando non aveva valore.

La povertà quindi non è rifiuto dei beni economici, che vengono dati da Dio perché l’uomo li sfrutti per soddisfare attraverso di essi i propri bisogni e le proprie esigenze di crescita. Non è però neppure possesso, nel senso esclusivo e totalizzante, sia perché il possesso dilatato genera sperequazione ed ingiustizie, sia perché genera dipendenza dalle ricchezze.

Povertà è dunque partecipazione, condivisione di beni, in quanto è finalizzata alla comunione tra le persone; i beni sono di tutti, secondo il principio della loro destinazione universale, che la chiesa richiamava già nel periodo patristico (ed in seguito poi sempre di meno): ogni volta che ci si appropria di qualche bene della terra bisogna chiedersi quanto ciò sia giusto non solo rispetto alla soddisfazione dei nostri bisogni, ma anche nel rispetto dei bisogni di tutti gli altri.

Il tema del superfluo allora si capovolge rispetto all’ottica che tradizionalmente si è venuta sviluppando nella chiesa in epoca moderna, dove la domanda sull’uso del superfluo parte dall’assolutizzazione del diritto di proprietà: si pone cioè il problema, rispetto a beni il cui possesso è considerato anzitutto un diritto, di quale parte destinare agli altri considerandola superflua, dopo aver soddisfatto pienamente tutti i bisogni. Se invece poniamo al centro non il diritto assoluto di proprietà, ma la destinazione universale dei beni, la domanda va posta in termini ribaltati: di quanto dei beni che sono primariamente destinati a tutti mi posso impossessare per soddisfare i miei bisogni, tenendo conto dei bisogni di tutti; allora questo possesso non è mai esclusivo e totalizzante, ma è una forma di compartecipazione di una realtà che è fatta per essere condivisa: questa è la povertà come condivisione.

Se vogliamo usare un’espressione evangelica, la povertà in rapporto ai beni è convivialità, dove il termine indica tanto la comunione con le persone quanto la compartecipazione delle cose. Pensiamo al modello della comunità cristiana primitiva, così come ci è descritta negli Atti: vivevano nella comunione fraterna, mettevano in comune i loro beni, spezzavano insieme il pane. Non è casuale che Gesù abbia istituito l’eucarestia sotto la forma del banchetto, perché umanamente parlando non c’è nulla meglio del banchetto che esprima bene la comunione tra le persone nella condivisione delle cose; infatti tutto ciò che è posto sulla mensa è da distribuire tra tutti, non è proprietà esclusiva di nessuno.

La convivialità eucaristica diventa vera se è espressione di una convivialità vissuta nel quotidiano attraverso la realizzazione della condivisione fraterna e della comunione dei beni; a sua volta poi la comunione eucaristica stimola la comunità cristiana ad andare sempre di più nella direzione della realizzazione di forme di comunione con le persone e di condivisione delle cose.

Il senso profondo della povertà nel rapporto con i beni è quello della convivialità finalizzata alla crescita della comunione interpersonale; i beni sono strumenti importanti, buoni, voluti da Dio, dati a tutti, ma in vista della crescita della fraternità tra le persone.

Povertà e ridistribuzione delle risorse

La rilettura di questo tema nella società di oggi può andare in diverse direzioni, sempre stante il fatto che la povertà evangelica va vissuta nelle due dimensioni di stato sociologico e di attitudine religiosa. La prima direzione di ricerca, nell’ambito soprattutto della dimensione socio-economica del rapporto con i beni della terra in senso allargato, è quella della definizione del concetto di proprietà non solo come possesso di beni, ma come controllo dei mezzi di produzione; e, sottolineo, non solo come possesso dei mezzi di produzione, ma attraverso il loro controllo, che è una forma di potere molto più sofisticata, invisibile ma determinante.

In una società tecnocratica chi ha il potere non è sempre chi materialmente ha il possesso dei mezzi di produzione, ma colui che li controlla, p.es. attraverso le altissime conoscenze tecnologiche che sono in grado di decidere sulle scelte produttive; questa è una forma molto più raffinata ma molto più determinante nelle società contemporanee, che essendo sempre più complesse si allontanano dal concetto di proprietà inteso in senso concreto, come p.es. in passato il latifondo. Nelle nuove forme di proprietà è tutto da verificare quanto sia importante il possesso dei beni materiali della terra, rispetto a forme prevalenti quali il controllo dei mezzi e delle scelte di produzione.

La seconda direzione di approfondimento mi sembra quella del rapporto fra povertà e qualità della vita: oggi più che mai ci rendiamo conto che la spinta ad andare verso l’accumulo quantitativo dei beni, come espropriazione della natura, ha creato le condizioni per una dequalificazione progressiva della vita; allora, sociologicamente parlando, la povertà come autolimitazione dei bisogni e dei desideri, e di conseguenza come limitazione concreta dei beni posseduti, può essere intesa come sobrietà e come occasione per cambiare la qualità della vita, puntando su un modello di vita non più puramente quantitativo. Cambiare la qualità della vita vuol dire cambiare la qualità dei rapporti, dell’uomo con se stesso, con gli altri, con il mondo, e non ultimo cambiare i rapporti con la natura e con il tempo.

Se vogliamo che lo sviluppo non tenda per sempre ad un aumento quantitativo esasperato, la povertà può diventare il mezzo per ripensare la qualità della vita. Questo oggi sembra necessario anche da un punto di vista economico, perché ciò che un tempo si dichiarava eticamente inaccettabile oggi è pensato anche come economicamente improduttivo. Pensiamo alle ricadute negative anche sul terreno economico dei processi di inquinamento, o delle sperequazioni che generano conflittualità e migrazioni di massa, come quelle dal sud al nord del mondo, con gli enormi costi anche economici di questa conflittualità.

Ormai anche gli economisti affermano che non sempre il perseguimento di certi livelli produttivi fine a se stessi, o un certo accumulo infinito del profitto, hanno poi ricadute sempre positive sul piano economico. Ovviamente il nostro discorso va oltre e riguarda l’etica della vita quotidiana e il significato da dare a questa esperienza, con una proposta di limitazione degli aspetti più propriamente quantitativi ed espansione di quelli qualitativi. L’austerità, la sobrietà, l’autolimitazione dei bisogni e dei desideri, l’uso corretto del denaro, delle risorse ambientali, un esercizio meno accentrato del potere e così via, sono tutti processi che possono essere finalizzati al cambiamento della qualità della vita.

Un’ulteriore riflessione che possiamo fare, sempre nella direzione orizzontale della relazione con tutti gli altri, è quella della necessità della povertà, quella positiva, nel senso evangelico, per vincere la miseria. Questo vale non solo a livello di singole persone, ma soprattutto a livello di popoli: mettersi sulla strada di una limitazione dei nostri bisogni, orientando anche i processi produttivi verso la soddisfazione dei bisogni primari di tutti, implica l’idea di non moltiplicare le nostre esigenze, che potrebbero diventare infinite, per poter generare perequazione e giustizia e recuperare un giusto rapporto fra nord e sud.

È ovvio che questi sono processi strutturali, economici e politici, ma essi non possono cambiare se non c’è un’attitudine diversa a livello delle coscienze; anche il potere politico più accorto che mettesse in atto dei processi di riduzione dei bisogni in vista di ampliare la possibilità di soddisfazione dei bisogni primari di altri, verrebbe immediatamente messo alla gogna se non esistesse una coscienza dal basso del valore di questa scelta, se non fosse sostenuto dal consenso di una consapevolezza del vantaggio per il miglioramento della qualità della vita di tutti.

Senza entrare ora nei meccanismi economici e politici, mi sembra che per vincere la povertà negativa, la miseria, occorre vivere la povertà positiva, evangelica. Dato che le risorse sono limitate, ed i bisogni vanno crescendo inevitabilmente, ed entro certi limiti sono anche bisogni autentici, bisogna reinventare qualche meccanismo di perequazione, che parta anche da un’autolimitazione dei bisogni di coloro che sono arrivati a poter soddisfare bisogni aleatori di qualunque genere. Meccanismo che favorirebbe non solo la possibilità di ridistribuzione, ma anche di mantenere risorse che saranno indispensabili per le generazioni future; oppure inevitabilmente il divario tra ricchi e poveri, tra popoli sviluppati e sottosviluppati non farà che crescere, e cresceranno anche all’interno delle singole nazioni sacche di povertà, che essendo minoritarie rischiano di essere ancora più penalizzate dal passar sopra della maggioranza.

La democrazia dei due terzi corre questo rischio, anche da noi, dell’ignorare tranquillamente l’altro terzo, nel rispetto pieno delle regole democratiche, che si reggono sul principio di maggioranza; ma quest’ultima può decidere unidirezionalmente di andare verso certi obiettivi, tagliando fuori tutti coloro che invece sono in una condizione di impossibilità di parola, perché anche il diritto di voto non riesce ad incidere in questi meccanismi, se non c’è da parte di tutti una partecipazione etica a costruire strade diverse.

 

Giannino Piana ha poi ripreso la parola nel dibattito, con alcune sottolineature "a ruota libera" che sintetizziamo:

La coscienza deve incidere sulle strutture

È stato sottolineato il problema strutturale; certo le strutture oggi hanno un peso sempre più determinante, anzi potremmo parlare di primato storico della struttura sulla coscienza, anche senza essere marxisti. Ma esso non significa che ci sia anche un primato di valori, perché la coscienza va al di là della struttura e avrà sempre, oggi come ieri, la capacità di reagire. Forse questa capacità di reazione oggi è più limitata, e sembrano sempre meno le persone capaci di innescare processi che reagiscono nei confronti della cultura dominante e dei valori, o disvalori, che essa propone.

Se c’è una sorta di livellamento che è generato proprio dalla struttura, allora la costruzione di un modello etico implica oggi maggiore attenzione sia all’identità soggettiva, che alle relazioni interpersonali, ma anche alla creazione di strutture giuste; tutti e tre questi livelli devono configurare un modello etico che dà contenuto ad una proposta di valori che non vuole rimanere astratta, ma si traduce operativamente in scelte di vita. Quindi assimilazione di valori a livello soggettivo, ma anche relazioni ispirate a questi valori, ed infine creazione di strutture giuste che rendano di fatto possibile l’incarnazione di questi valori.

Quindi il peso delle strutture è determinante, anche se la coscientizzazione personale è indispensabile per il cambiamento strutturale. Questo può creare situazioni di disagio a livello personale, perché ci troviamo di fronte ad una rivincita forte del capitalismo, generata anche dal fallimento dell’economia pianificata nei paesi del comunismo reale. Addirittura assistiamo a cambiamenti a livello del linguaggio, che si è involgarito, ma che è la spia di modi di sentire e di pensare che sono sempre più diffusi.

Quando gli ospedali diventano "aziende sanitarie", quando le scuole sono viste esclusivamente come preparazione dei ragazzi ad essere futuri utenti dell’industria, credo che siamo davanti non sono all’imbarbarimento del linguaggio, ma ad un involgarimento delle attitudini di fondo, con perdita di una cultura che ha la sua dimensione della gratuità, destinata alla formazione della persona. Certo è necessaria una preparazione professionale, come pure una razionalizzazione di processi all’interno della sanità; ma questo non può ridurre servizi che sono destinati a persone che sono in situazioni di marginalità e di malattia, o istituzioni come la scuola che sono deputate all’istruzione e alla cultura, a puri e semplici strumenti in funzione del mercato.

Questo esige l’elaborazione di strategie che sono anzitutto etiche, nel senso dell’etica della responsabilità, che nasce dalla coltivazione profonda di alcuni valori che poi si traducono in attitudini profonde delle persone

Poi è necessario misurarsi con le possibilità effettive di incarnare quei valori in rapporto alle situazioni concrete, correndo anche il rischio del compromesso, per non fare proposte anche molto belle ed alternative ma che passano sopra le teste senza misurarsi con le possibilità reali. Questo è spesso il rischio della sinistra, di non fare i conti con l’efficacia delle azioni, pensando che la pura testimonianza sia tutto, senza misurarsi con la capacità di incidere facendo una valutazione delle conseguenze delle azioni. Nemmeno il discorso politico in senso nobile può limitarsi a proclamare astrattamente in modo rigido i principi.

Per una nuova politica della solidarietà

Vorrei ancora sottolineare il fatto importante che la condivisione deve diventare obiettivo politico, altrimenti ci mettiamo nella prospettiva della pura elemosina o dell’assistenzialismo. Certo in alcuni casi immediati c’è bisogno di assistenza subito, ma non è questa la logica che deve muoverci di fronte ai problemi; ci deve essere invece una progettualità complessiva di tipo politico. L’avversione verso il termine solidarietà sembrava essere originata, soprattutto in passato, dalla riflessione che essa può essere un elemento che in qualche modo lascia impregiudicato il sistema con le sue ingiustizie, contribuendo anzi a renderle meno evidenti; ma il rischio è che questa posizione finisca per giustificare o non mettere in discussione affatto il sistema.

Allora occorre trovare soluzioni che vadano nella logica della creazione di strutture giuste, passando attraverso la solidarietà, mettendo al centro il tema della struttura che per essere giusta deve innanzitutto rispettare i diritti fondamentali di tutti e di ciascuno.

Qui si apre un discorso grandissimo che riguarda lo stato sociale: ormai la tentazione non è più quella di riformarlo ma di cancellarlo, anche per ragioni di bilancio pubblico. Ma bisognerebbe ribaltare la prospettiva, nel senso che non soltanto lo stato sociale dovrebbe rimanere ed essere potenziato, ma anzi certi diritti devono ricevere risposte più serie; nello stesso tempo bisogna creare condizioni perché questo stato sociale funzioni, venga mantenuto ed allargato attraverso una gestione più rigorosa dei servizi.

Una gestione più rigorosa però non è fatta da una maggiore managerialità, ma da un maggiore consenso sociale: bisogna realizzare più partecipazione del basso, per passare ad una società sempre più solidale. Lo stato sociale in fondo è nato per rispondere in modo più strutturato a bisogni di solidarietà, quali l’assistenza, l’istruzione e la sanità, quando non era più possibile gestirli direttamente come nella società contadina. In questo passaggio c’è stata una delega da parte della società verso lo stato, e dall’altra parte una avocazione a sé della gestione della solidarietà da parte dello stato, escludendone la società.

Credo che uno stato sociale funzionerà quando si rapporterà ad una società solidale, cioè quando i cittadini avranno

il controllo e forme di partecipazione ai servizi, che ovviamente devono essere gestiti a livello istituzionale. Tutto questo comporta quella coscienza di cui dicevo, che è fondamentale per dirigere i grandi cambiamenti strutturali; essi a loro volta non possono essere pensati solo come cambiamento di gestione, meno burocratizzata perché accanto al pubblico entra il privato, ma ripensati da parte di una società che partecipa in modo diverso a questi processi, con una linea di tendenza che va verso il superamento delle forme di assistenzialismo chiamando in causa il rinnovamento della coscienza collettiva.

Per affrontare questi grandi nodi in modo adeguato, e per concretizzare nella realtà queste prospettive di così grande portata, credo che bisogna ripensare a modelli sociali alternativi riscoprendo il campo della politica: soprattutto in un certo mondo cattolico, dopo le logiche di spartizione del potere, di clientelismo e di corruzione, si è tentati di abbandonare la politica. È vero che la politica in un certo senso è fallita, e guardando lo scenario internazionale si vedono una serie di problemi che rendono molto difficile la creazione di alternative; assistiamo addirittura ad una rivincita del capitalismo sul piano istituzionale e culturale.

Io credo però che oggi non basta più ritirarsi nel campo del volontariato, nei gruppi, o nel proprio particolare, anche se molte di queste attività sono nobilissime: ci sono invece le condizioni per ripensare allo stato sociale in una logica di solidarietà che nasce dalla società, trovando espressioni nel rapporto tra soggettività sociale ed istituzioni pubbliche, come dicevo prima.

Stato e società possono riuscire ad interagire positivamente se quest’ultima diventa una realtà viva, caratterizzata da aggregazioni che hanno forme specifiche: nel campo dell’economia penso a tutto il settore del cooperativismo e del no-profit, ma anche ad una economia diversa che si ispiri ad una democrazia economica che la riporti nella società. Bisogna cioè uscire dalla contrapposizione stato/mercato, che taglia fuori la società, ed introdurre questa nuova variabile, la società che controlla, partecipa e si fa azionista dei processi economici, in una prospettiva nuova che andrebbe tutta pensata.

a cura di Germana Pene e Carlo Saccani

 

Una nota biblica: il tema del superfluo in Luca 11

Il capovolgimento della prospettiva sul superfluo, che non è dare quello che ci avanza riaffermando quindi il diritto assoluto alla proprietà, è presente fortemente all’interno della stessa rivelazione biblica, se rileggiamo attentamente quel passo (Luca 11,37-40 e sgg) dove Gesù entra in casa del fariseo e siede a mensa senza lavarsi le mani; tutti lo guardano con atteggiamento quasi di disprezzo e, interrogato dal padrone di casa sull’omissione delle abluzioni rituali, fondamentali per un ebreo, Gesù risponde: "preoccupatevi piuttosto di dare quello che super est ai poveri". Questo "super est" è stato così tradotto dalla vulgata (prima traduzione latina della Bibbia) dando origine al nostro: quello che sopravanza; espressione che giustifica la concezione tradizionale sul superfluo: quello che ci avanza va dato ai poveri. Invece gli esegeti concordano oggi nel tradurre quell’espressione non come "ciò che avanza", ma come "ciò che sta sopra il piatto", dando un senso molto diverso al messaggio di Gesù: perché (piuttosto che dell’impurità rituale) non vi preoccupate di condividere con i poveri ciò che avete sul piatto? Quindi il "superfluo" è tutto ciò che abbiamo e che dobbiamo condividere, certo soddisfacendo anche le nostre esigenze, ma in un rapporto costante con le esigenze degli altri, con una verifica costante. Anzi ormai, per essere coerenti e attenti ai cambiamenti sociali, dobbiamo riconoscere che oggi non si può più parlare solo di superfluo individuale, ma di superfluo collettivo, di interi popoli, dei popoli ricchi nei confronti di quelli poveri. Quando a molti manca il necessario per la sopravvivenza, quanto di quello che abbiamo deve essere ridistribuito?


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