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HO PRENOTATO LA CREMAZIONE

Carissimi, in questi giorni ho finalmente sbrigato le dovute pratiche per la cremazione del mio cadavere. So benissimo che questa non è proprio la notizia che il mondo attendeva. Ma è pur una notizia sopportabile in una lettera ai nipoti: in fondo è raccontarsi fino all'estremo (ed oltre!).

Ho già confessato altrove (Confronti, n° 5 1994, pp. 27-28) che per il mio cadavere coltivo da tempo due progetti: renderlo disponibile ad ogni possibile prelievo ed utilizzazione e, appunto, consegnarlo alla cremazione. Il primo è indubbiamente il più importante e mi ostino a sperare che, a dispetto delle devastazioni degli anni, qualcosa di me conservi decente idoneità. Mi piacerebbe contribuire a diminuire la vergogna degli italiani tanto solleciti a mendicare donazioni da altri paesi quanto avari nel darsi anche aldilà della morte. Spero che la lezione dei genitori di Nicholas Green (l'americanino - merita ricordarlo - ucciso da italiani e reso disponibile per la vita di italiani) sopravviva alle brevi emozioni e si incanali in una solida "conversione" culturale: perché sono a confronto la cultura della donazione come normale gesto personale e la cultura della donazione come atto eccezionale (eroico!) di altri.

Fortemente compromessa la mia donazione, mi rimane la cremazione, ora certificata. La più debole del progetto. Ma non da minimizzare. E non da appiattire sulle sue motivazioni più ovvie (e già sufficienti) e cioè quelle igienico-logistiche. Perlomeno merita capire perché motivazioni, appunto, ovvie e sufficienti non riescano a smuovere più di tanto diffidenze e resistenze.

Pesano anche le presunte complicazioni burocratiche per l'iscrizione. In me, lo ammetto, hanno incoraggiato annosi rimandi. Eppure è tutto semplice e rapido. Basta rivolgersi all'organizzazione competente. Io ho incontrato la "Società cremazione dei cadaveri", qui a Livorno dal 1882, quindi pionieristica nel nazionale "Movimento per la cremazione". La prima salma cremata è del 1885. Quella di Gaetano Cecchi: difficile ipotizzargli in vita fiamme più brucianti di quelle dopo la morte? L'ufficio della "Società" è vuoto e tutto fa immaginare che qui, purtroppo, non siano in auge code o file. Si passa subito al concreto. Che si esaurisce in poco: un documenro d'identità e una modesta quota d'iscrizione, che si dimezzerà in un contributo annuale. Ricevi un tesserino e lo statuto della "Società" e sei a posto. Chi è in cerca di alibi sappia che l'alibi delle pastoie burocratiche qui non regge!

Ma esistono altri alibi. Più sofisticati. Meno facili da smontare se non si smonta qualcosa di noi stessi. Ed è qui che la cremazione va oltre il suo produrre meno ingombro dell'inumazione e meno inquinamento della decomposizione. Metto in fila qualche appunto (o spunto).

Primo. Non mi convince l'equazione "culto dei morti" uguale "conservazione dei morti". Che non costituisca un assoluto lo dimostrano i molti popoli (della costa settentrionale della Siberia e dell'America del Nord, della costa del Pacifico fino alla California, dell'India, dell'Indocina, dell'Indonesia...) che, invece, onorano i morti distruggendoli, cremandoli.

Secondo. Mi piacerebbe che qualcuno approfondisse quanto, nell'una e nell'altra posizione, pesino le convinzioni religiose. Forse non è azzardato vedere correlazioni tra la cremazione e reincarnazione e tra conservazione e resurrezione della carne distanziata (e quanto) dalla morte. Per intenderci: è facile disfarsi della vecchia veste sapendo di sostituirla immediatamente con un'altra; ed è altrettanto facile avere riguardi per la veste che si è deposta ma sapendo (o immaginando!) di riprenderla nella stagione giusta. E se è vero che non sta scritto da nessuna parte che la carne della resurrezione sarà la stessa che è stata consegnata alla tomba è anche vero che nell'immaginario passa e si radica il collegamento ed il vicendevole richiamo tra l'anima volata in cielo e questo corpo sepolto nella terra. La resurrezione in molti è come certe illustrazioni: tombe che si scoperchiano e scheletri che ne escono riprendendo quelle forme che si erano dissolte.

Terzo. Mi piacerebbe che fosse chiaro anche per i cattolici che il cadavere proprio e altrui è veramente una veste definitivamente fuori uso. Sarebbe stato e sarebbe tutto più semplice se si dicesse - come dice una corrente teologica da sempre minoritaria e da sempre snobbata - che non ci può essere una nostra sopravvivenza se non è sopravvivenza del nostro io intero e non supponendo impossibili scissioni tra anima e corpo, spirito e materia. Per cui se è resurrezione della carne è resurrezione, immediata e non rimandata alla fine dei tempi, anche della carne. Ovviamente diversa e altra rispetto a quella che ci ha accompagnato in vita e in morte. Una fisicità in scenari inesplorati ma non più impossibili nemmeno per i fisici (si vedano le posizioni di Frank J. Tipler). E il tutto è almeno rispettoso dell'antropologia. Che, magari, si vede sospinta verso altre fasi o dimensioni. A quelle forse sottintese da Lao Tse: "Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla".

Quarto. Mi accorgo che cremazione e donazione sono un progetto unico e non due progetti. Disporsi alla cremazione è infrangere il tabù del cadavere da mantenere intatto e completo e, allora, donare cornee, fegato, reni, cuore... diventa normale. Proprio come è molto improbabile che sia disposto a dare anche un frammento di sé chi è deciso (per paure e convinzioni) a garantirsi un cadavere integro e a più lunga conservazione possibile.

Debbo chiudere. Concedo che questa lettera non ha i colori della primavera. Ma non si dovrebbe pensare che sia senza colore soltanto perché è ambientata all'autunno. Anzi all'inverno.

Martino Morganti


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