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LA PROROGA

Carissimi,

è una notizia che vi devo: il mio trasloco (vedi Tempi di Fraternità di febbraio) è stato rinviato. Non so a quando o per quanto. Sta di fatto che Qualcosa (un sorprendente miglioramento) ha prorogato la scadenza del mio sfratto ed ha aperto questo mio tempo supplementare. Un "bonus" di tempo (di vita) in più e non è certo il caso di lamentarsene.

Però si tratta di tempo (di vita) particolarissimo. Complesso e complicato. Scomodo e faticoso. C'è, intanto e prima di tutto, questa sua ambigua collocazione tra il dono e la beffa. È vero che regala giorni alla vita ma è altrettanto certo che non impedisce alla morte di restare in attiva gestazione. Sospende la risoluzione finale ma la mantiene in programma cosicché dovrà essere affrontato ciò che poteva già essere superato e si dovranno anche ripetere passaggi già pesantemente sofferti.

Tempo generoso o tempo crudele? Meglio trovarlo o meglio perderlo? Non meritava togliersi il dente e non pensarci più? Mi è capitato di associare la mia situazione addirittura a quella tragico-comica di condannati a morte sottoposti a spasmodiche attenzioni di medici e chirurghi: sono (siamo!) curati per la vita o sono (siamo!) curati per la morte? Non si è salvato nemmeno il buon Lazzaro di evangelica memoria; un privilegiato da invidiare o un povero diavolo da compatire? La sua resurrezione (qualche anno di vita in più) non gli è costata un po' troppo cara se l'ha dovuta pagare con doppia morte e il doppio di tutti gli annessi alla morte stessa (malattie, agonie, disagi di parenti ed amici, funerali...)? So che disapprovate. Forse sono colpevole. Di peccati "in pensieri". Di questi pensieri che sono "cattivi" pensieri. Perché forse offendono la vita, buona e benvenuta comunque e a qualsiasi prezzo. Perché sicuramente offendono voi che la vita -e proprio la mia vita- avete tenacemente e testardamente difeso. Magari scomodando lo stesso vertice dei vertici: "A volte anche Dio cambia idea" (grazie Lalla Molinatto delle splendide ... esagerazioni; TdF di marzo) O confidando in altri "miracoli", quelli del1'imprevedibile energia vitale che può graziare anche chi si appiattisce sulle sole apparenze negative (tenerissimo, caro Gianmichele, il tuo rimprovero). Oppure dando credito ad ogni tipo di ritrovato curativo o presunto tale (i "nipoti" più zelanti in questa direzione sono stati i meno ascoltati ma non i meno apprezzati!). Soprattutto offrendo iniezioni e trasfusioni di affetto, calore, sostegno, serenità: la terapia delle terapie; il miracolo che mi sta miracolando e che sarà miracolosamente vincente anche a dispetto della morte.

Comunque -dovete concedermelo- questo mio tempo è e rimane uno strano tempo. Ed è con le sue stranezze che devo fare i conti. Non mi è facile ricondurlo a tempo di vita. È sbilanciato sulla morte, sulla quale è stato ritagliato e con la quale mantiene diretta ed esplicita prossimità e contiguità. Soprattutto tende a fare della morte un'insidiosa giustificazione per snobbare la vita, per evitare la fatica di vivere. Mi sono un po' identificato in Palomar di Italo Calvino (Einaudi, Torino 1983). Il signor Palomar che voleva "imparare ad essere morto". Per cambiare le cose tra lui e il mondo. Perché non s'aspettassero più qualcosa l'uno dall'altro, lui e il mondo. "Ora il signor Palomar dovrebbe provare una sensazione di sollievo non avendo più da chiedersi cosa il mondo gli preparava e dovrebbe avvertire anche il sollievo del mondo, che non ha più da preoccuparsi di lui" (p 123).

Sarebbe comodo considerare chiusa la partita del dare. È ancora tempo di vita, cioè di diritti ma anche di doveri.

Tempo da restituire alla responsabilità del vivere. Ii che presuppone un'operazione che chiamerei di ...ri-paesamento. Si tratta di restituire al tempo un suo spazio, un suo dove, il suo "paese". Va corretto lo "spaesamento". Che è un po' la mia situazione attuale: appunto *spaesato" perché estraneo al paese-altrove mai raggiunto e praticamente estraneo anche al paese-qui, dal quale mi sono troppo affrettatamente dimesso.

Devo ricollocarmi nel mio qui ed ora. Riesserci.

"Adamo, dove sei?". Nell'antico racconto ebraico questa domanda di Dio non mette in discussione l'onniscienza di Dio ma tende a sollecitare Adamo a ritrovare se stesso; "Adamo, dove sei?" vale per "Adamo, sai dove sei?". Martin Buber annota; "Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché l'uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora; vuole invece provocare nell'uomo una reazione suscitabile per l'appunto solo attraverso una simile domanda..." (Il cammino del1'uomo, Ed.Qiqajon, Comunità di Bose 1999, p.21). Buber aggiunge: "Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita..., l'esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento" (ibid).

Già: so dove sono? Devo smascherare anche questo meccanismo di disimpegno e venirne fuori riabitando nel mio dove così come è e indipendentemente dalla solidità o debolezza delle appartenenze.

 

Tempo, questo nun strano tempo, anche da riempire e da riprogrammare.

Buber vede come frutto dell'uscita dal nascondimento e del disimpegno la ripresa della vita come cammino e di un cammino unico ed irripetibile per ciascuno. Può essere quanto serve a questo mio tempo che è vuoto perché tempo imprevisto e quindi fuori programma e senza un programma. Ne voglio prendere nota. Per non cedere ad attrazioni di inattività, di passività. Per non rinunciare ad essere me stesso con la scusa di non poter essere una grande cosa. Da memorizzare: "Ogni singolo uomo è cosa nuova nel mondo... Ciascuno è tenuto a sviluppare e dar corpo proprio a questa unicità e irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò che un altro -fosse pure la persona più grande- ha già realizzato" (I.c., p.27), Esemplificando: "Quand'era già vecchio e cieco, il saggio Rabbi Bunam disse un giorno "Non vorrei barattare il mio posto con quello del padre Abramo. Che ne verrebbe a Dio se il patriarca Abramo diventasse come il cieco Bunam e il cieco Bunam come Abramo?" La stessa idea è stata espressa con ancora maggiore acutezza da rabbi Sussja che, in punto di morte, esclamò: "Nel mondo futuro non mi si chiederà: "Perché non sei stato Mosé", mi si chiederà invece "Perché non sei stato Sussja?" (I.c., p.28)

Cammino unico ma, ovviamente, variabile nel mutare dei contesti e delle diversità del percorso. Traduco: devo essere me stesso in questo mio tempo che non sembra affatto propizio e al camminare e alla affermazione personale. Sento piuttosto puzzo di contrapposizione. È una bella impresa ipotizzare spostamenti, viaggi, movimento in spazi contratti, ridotti magari ad una stanza o addirittura alle dimensioni di un letto Spazio piccolo consente ampiezze mentali? "Provincialismi", "mentalità paesana" sembrano metterlo in dubbio. Ma esistono certamente grandi e convincenti prove a sostegno. Mi piacerebbe esplorare la situazione più pertinente: come sono o possono essere i pensieri di un allettato? Pensieri allettati? E quali connotati possono avere i pensieri allettati?

Gioco. Ma non troppo. Il rapporto tra postura e mente è dato per provato. Ne sa qualcosa Buddha che accede al Risveglio dopo lungo stare seduto ai piedi di una pianta. Credo che ne sapessero qualcosa anche gli stiliti che dall'abitare su una colonna o su un capitello forse non traevano soltanto disagi penitenziali. E gli antropologi segnano il passaggio dalla scimmia agli umani nell'acquisizione di quest'ultimi della posizione eretta che precede e influisce sul loro sviluppo cerebrale. Ed è arduo vedere nella ridotta (e ridottissima) autosufficienza un'alleata dello sviluppo della propria personalità. È possibile che proprio mentre denunci impossibilità a fare da solo si registri una crescita di te stesso? È possibile che una situazione di apparente dipendenza si trasformi in opportunità di contraccambio magari attivando qualcosa di te che prima non avevi coltivato o coltivato soltanto scarsamente?

Confesso che mi piacerebbe molto avere capacità e modi per non mortificare questa indagine che è molto di più di una curiosità intellettuale. Posso soltanto dirmi disponibile a sperimentare; pronto anche a debuttare su copioni fuori del mio repertorio.

Tempo complicato, questo mio tempo penultimo.

È il mio tempo. Non ho altro tempo che questo. O so esserci o non è vita. Nemmeno con la morte che si è momentaneamente ritirata. Dovrò alzare il volume di quella voce: "Abramo (Martino) sai dove sei?".

Livorno, 15 maggio 1999

Martino Morganti


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