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MAI DIRE FINE

Carissimi,

"Fine" - ve ne sarete accorti - cambia volto dal femminile al maschile. Dice cose diverse, quasi opposte.

La fine è brutta, funerea: segna il punto o il momento in cui qualcosa o qualcuno termina.

Il fine è bello, arioso: propone uno scopo, un obiettivo; apre e sostiene la continuità.

Facile scoprire prepotenze maschiliste filtrate anche nel linguaggio: il negativo al femminile e il positivo al maschile. Ma non trascurabile un’ipotesi buonista: che questa spartizione sia stata programmata in vista di un matrimonio nel quale la fine, accasandosi appunto con il fine, cessi di essere terminale e diventi misterioso consegnarsi ad altri prosegui. Un matrimonio garantito. Cosicché la fine non è mai e in nessun caso legata definitivamente al suo tragico zittellaggio, al suo essere priva de il fine. Tanto da rendere la fine vocabolo improprio almeno quando pretenda di indicare il definitivo, il senza seguito.

Già: la fine termine improprio. Troppo bello per essere vero?

O troppo bello per essere dimostrabile? Più facile dimostrare il contrario. La bara sembra sufficiente ad irridere l’illusione: ciò che accoglie, incassa e sigilla è fine accertata Ma la bara che certifica senza possibilità di dubbi una morte è in grado di attestare la morte?

La bara ignora troppe cose

La bara non ha letto Lao Tse: "Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla". È vero che Lao Tse apre a scenari inesplorati ma è anche vero che Lao Tse si fa portavoce di una rivendicazione pressoché universale alla sopravvivenza dai mille nomi (resurrezione, reincarnazione, trasmigrazione, ritorno nel tutto… ).

E qualcosa è anche dimostrato. Affascina la vita che si giova della morte attraverso i trapianti. E molto accade oltre l’evidenza di emergenze fisiche. Non è insolito, ad esempio, che la "perdita insostituibile" o il "vuoto incolmabile" lamentati - e magari con documentata sincerità - intorno ad una bara, risultino a breve scadenza aperture e spazio per sorprendenti sostituzioni e per insospettate crescite e maturazioni. Insomma: il "mors tua vita mea" può sciuparsi nel cinico tornaconto ma sostanzialmente corrisponde alla fascinosa legge che rende la morte vitale e non mortale; della morte che è in grado, appunto perché vivificante, di mantenere vivo anche chi è morto.

Credo sia generalizzabile - che non è uguale a livellare - il congedo di Gesù di Nazareth dai suoi: "Per voi è meglio se io me ne vado. Perché se non me ne vado non verrà da voi lo Spirito" (Gv 16,7).

Se gli umani dell’età della pietra fossero rimasti fino ad oggi forse saremmo fermi all’età della pietra e forse saremmo fermi all’età della pietra anche se in noi non fossero vivi gli umani e dell’età della pietra e delle età successive. È bene che generazioni ed epoche, culture e civiltà "se ne vadano" per non bloccare sul proprio e consentire la nascita di altro che, in qualche modo, conserva vivo quanto lo ha generato. "La grande distinzione dottrinale fra natura e persona indica come tutte le persone umane siano chiamate ad una comunione e solidarietà che trascende di gran lunga gli angusti confini dell’individualismo monadico. Non è infatti possibile rispondere alla domanda: ‘chi sono io?’, se non narrando tutte le persone da cui ciascuno di noi è nato, con cui è vissuto, e con cui vive (…). Ogni autobiografia ipso facto una eterobiografia (…). Non comprenderemo né conosceremo pienamente chi è ognuno di noi finché non comprenderemo e conosceremo ogni persona umana che è stata, è, o sarà membro della razza umana" (M. Lamb, Concilium, 1993, 5, 165).

La fine è termine improprio? La bara irride. Ma alla bara sfuggono troppe cose e c’è da sperare che siano queste tante cose ad irridere la bara La bara gestisce la fine ma non ha competenze su il fine.

"O morte, dov’è la tua vittoria?" (1 Cr 15, 55). Con domanda a seguire: la morte è vinta per miracolo aggiunto dall’evento cristiano o è vinta da miracolo già inscritto nella forza della vita e che l’evento cristiano ricorda ai cultori delle apparenze?

E c’è la fine del millennio

Un semplice segna tempo Per altro del tempo non di tutti ma soltanto dei cristiani e, per di più, basato su calcoli errati di 6-7 anni sul suo inizio (la nascita di Gesù di Nazareth). E, in obbedienza alla distribuzione dei fusi orari, accade con scadenze differenziate e distanziate da continente a continente, da paese a paese.

Insomma: la fine del millennio è la fine di niente. Eppure è diventata, e diviene, appuntamento della fine di tutto: la fine dei tempi; la fine del mondo; la fine della storia.

I millenarismi hanno impaurito i nostri antenati e sembrano impaurire anche una buona parte dei nostri contemporanei. Negli Stati Uniti, secondo una ricerca Gallup, il 50% della popolazione ritiene possibile la fine del mondo entro il duemila. In Italia - ricerca del Cesnur- la percentuale di chi fa analoghe previsioni scende al 15%, che è pur sempre una bella fetta dei nostri connazionali. Catastrofismo di ispirazione religiosa e non soltanto delle nuove religioni che negli Stati Uniti non vanno oltre l’1% e in Italia lo 0,4% più lo 0,6% dei Testimoni di Geova. Come dire che da noi, qui in

Italia, circolano paure sicuramente cattoliche e c’è da sospettare che anche le tante (troppe) Madonne lacrimanti e i loro drammatici messaggi diano efficaci contributi a questi pessimismi cosmici.

Impauriti all’interno di religioni vecchie e nuove. E impauriti all’interno di avvertenze meno gratuite: appena ieri quella dell’olocausto nucleare; ora quella della fine delle energie e delle risorse, dell’inquinamento, dell’estinzione degli umani, della morte del pianeta…

Paure. Buone soltanto per maghi e veggenti che nel duemila vedono la grande occasione della loro vita e già sono pronti a crescere in numero e, soprattutto, ad accrescere gli introiti.

Ma paure assurde. Sicuramente quelle religiose che non hanno appigli decenti. Ma anche quelle laiche o scientifiche Perché comunque inconcludenti e nocive come tutte le paure. Perché distraenti da assunzione di responsabilità rispetto a ciò che, qui ed ora, è e vive.

Vi affido alla poesia. Quella di Gioconda Belli dal Nicaragua: "In tutte le profezie / sta scritta la distruzione del mondo / Tutte le profezie dicono / che l’uomo creerà la propria distruzione. / Però i secoli e la vita che sempre si rinnova / generano anche una stirpe di innamorati e sognatori; / uomini e donne che non sognano la distruzione del mondo, / ma la costruzione del mondo delle farfalle e degli usignoli. / (…) Fu così che proliferarono nel mondo i portatori di sogni / ferocemente attaccati dai portatori di profezie che annunciano catastrofi. / Li chiamarono illusi, romantici, inventori di utopie, / (…) però i portatori di sogni tutte le notti facevano l’amore / e continuava a germinare il loro seme nel ventre di quelle / che non solo portavano i sogni ma li moltiplicavano e li facevano correre e parlare. / In questo modo il mondo generò nuovamente la propria vita / così come aveva generato quelli che inventarono il modo di spegnere il sole (…)".

Martino Morganti


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