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Alle prese col bene e col male (1)

Davvero bella la storia che ci ha raccontato lo Jahvista; bella ma non originale, almeno nell’insieme dei suoi soggetti letterari. Non c’è lettore a cui non sembri di averle già sentite queste pagine. Esse mettono in scena, cuciono, con indubbia arte narrativa e teologica, tele già tessute, rimitizzano, parzialmente demitizzandoli, miti altrui. Le immagini del giardino edenico, del Dio artigiano che modella l’uomo, dell’albero della vita e del sapere, del serpente tentatore, delle sofferenze conseguenti la colpa, del fratricidio generatore di città, del diluvio, della moltiplicazione dei popoli e della confusione delle lingue, non sono storie ebraiche. Sono storie mesopotamiche, la cui composizione si perde nella memoria dei tempi; storie che l’antico autore ha fatto proprie, reinterpretato. rielaborato, semplificato e collegato, per poterle rilanciare come storie del suo Dio.

Quel che ne ha fatto lo abbiamo visto. Ora ci resta da vedere cosa ne fa chi viene dopo di lui e che sulle sue tracce affronta lo stesso tema; ma soprattutto come si comportano nei confronti della sua fatica l’autore del documento Sacerdotale e come i redattori finali della Bibbia. Anche del loro lavoro dovremo presto occuparci perché il racconto, che già abbiamo commentato e quello che stiamo per commentare, non sono giunti a noi nelle due distinte unità, qui ricostruite e studiate, ma in una sorta di unità commista e continua, frutto di un innesto redazionale tardivo, narrativamente piuttosto infelice, ma teologicamente assai fecondo: in pratica una sorta di terzo racconto.

Dall’ordinamento del cosmo antropocentrico all’arco dell’ alleanza

La prima cosa che il lettore nota, quando confronta l’estemporaneo ed emotivo darsi da fare del Dio dell’Eden con l’ordinato e riflessivo procedere del Dio dei sette giorni, è la diversità di linguaggio dei due racconti. Qui una sintassi metaforica sapientemente scandita nei ritmi e nelle cadenze, un vocabolario selezionato e tendenzialmente concettuale; là una fioritura di situazioni simboliche che si accavallano e s’inseguono secondo una logica narrativa, fondata sull’intrecciato contrapporsi delle passioni. Qui metaforiche scansioni inniche e numeri simbolici, che immediatamente evocano orizzonti di regolata convivenza e possibilità di conoscenze teoriche; là forme corporee e relazioni affettive, che subito esplodono in pericolosi conflitti e orientano alla disciplina delle passioni. Qui una teologia della mente; la una teologia della cuore.

Qualcosa di vero c’è in tutto ciò, nel senso che il Sacerdotale evidentemente non condivide l’uso abbondante dei miti e il gusto per la psicologia del profondo dello Jahvista. In caso contrario non avrebbe riscritto il suo racconto. Ma il passaggio da un linguaggio simbolico-narrativo ad uno simbolico-concettuale, non è tutto. L’importante è l’emergere di una diversa prospettiva teologica che esige la completa rimetaforizzazione del tema creativo e che comporta, non la cancellazione del mito, ma un suo radicale ridimensionamento e soprattutto una sua nuova interpretazione. Per esprimere cosa? Per esprimere ciò che nessuno può guidarci a scoprire meglio del testo stesso.

Il Sacerdotale (Gn 1, 1–2,4; 5; 6, 9-22; 7, 6-24; 8, 1-19; 9, 1-17; 10; 11, 10-31) non si apre con un racconto, ma con un inno in cui il Dio vasaio lascia il posto al Dio legislatore, architetto del cosmo e Solone della società creaturale. Anche qui nulla di assolutamente nuovo ed inedito per le culture antiche, ricchissime di inni alle divinità creatrici, sapienti e giuste. Nulla di inedito, ma qualcosa di essenziale per la religiosità biblica, visto che, proprio a partire da questo testo, il tardo giudaismo parlerà della Sapienza e della Legge come preesistenti al mondo e come strumenti della sua divina messa in opera, e il cristianesimo di Gesù il Cristo come Verbo eterno e creatore .

Nel suo studio esemplare, Creazione e separazione, Paul Beauchamp osserva acutamente che l’insistenza sacerdotale sul potere creatore e ordinatore della parola di Dio si riflette sulle capacità conoscitive e attive della parola umana, esaltandone non solo il potere poietico in senso prometeico, ma anche quello etico in senso mosaico. Fatto ad immagine e somiglianza di Dio, infatti, l'uomo è invitato, sì a moltiplicarsi, riempire e dominare la terra, a sottomettere ogni vivente alla sua guida, ma a farlo, secondo una disciplina divina di mitezza, che gli impedisce di nutrirsi di carne e gli prefigura, nel divino riposo del settimo giorno, il rispetto sabbatico del riposo per ogni creatura, terra compresa. Potenziale architetto come Dio, l’uomo è come Dio anche potenziale legislatore, in quanto guida rispettosa dell’ordine dato da Dio al suo creato e della legge di pacifica convivenza da Lui suggerita a tutte le creature. Mai nel Sacerdotale si parla esplicitamente di legge, ma tutto è scandito secondo il ritmo segreto della legge: il tempo, lo spazio, i viventi, ciascuno distinto per specie, l’uomo "ad immagine e somiglianza" di Dio, l’ordinamento alimentare vegetariano dell’era pre-noaica e quello, carnivoro ma non sanguinario, del dopo diluvio.

Se nello Jahvista è dominante il tema dell’elezione redentrice, che fa dell’Adamo-ed-Eva, di Caino (il segno sulla fronte), di Noè, di Set e Iafet, degli stessi dispersi di Babele i precursori di Abramo nell’attenzione benefica ed edificatrice del Signore, capace di riscattarli al di là delle loro fragilità e persino delle loro colpe; il Sacerdotale fa della legge e dell’alleanza il filo conduttore del proprio discorso sulla benevolenza creatrice e salvatrice di Dio. Il che ci aiuta a capire perché è così essenziale per il primo dare tanto rilievo narrativo ai temi della relazione, del conflitto, della punizione pedagogica e della risposta riconoscente (sacrificio sgradito di Caino e gradito di Noè): e perché nel secondo tale rilievo si sfuma per trasferirsi sull’ordine del processo ordinativo, sull’enfatizzazione della parola e sulla precettistica alimentare. Perché l’elezione è fondata sulla libertà gratuita dell’amore, che a sua volta trova compimento solo nella libera gratuità della risposta, mentre la legge dell’alleanza richiede la chiarificazione della parola, l’ordine delle cose e degli atti, la disciplina pacifica dei rapporti. L’elezione è mossa dalla passione; la legge sgorga dalla ragione e l’alleanza dall’incontro bilanciato di ragioni, interessi e passioni, magnificamente rappresentato dall’arcobaleno, che segue il caos della tempesta e unisce terra e cielo con un incredibile concerto di colori, insieme diversi e compagni nella pace di un paesaggio che si fa sereno.

Dio, l’uomo, la natura di fronte al diluvio

Ecco perché il testo Sacerdotale si distingue da quello Jahvista nel modo in cui ci racconta la creazione del mondo, dei viventi e dell’uomo, ma non nel presentarci tale creazione come un agire che genera vita e bene a partire da una situazione di aridità e di caos e neppure nel sottolineare la centralità e il primato dell’uomo. Non serve al suo scopo, come non serviva a quello del suo predecessore, enfatizzare la potenza benefica di Dio fino a farne il creatore dal nulla della stessa materia informe e inerte. Anzi tale concetto sarebbe per lui un ostacolo nella ricerca delle forme e delle cause del male. Per il sacerdotale, come per lo Jahvista, Dio è sorgente di bene in quanto disciplina il caos e anima la polvere priva di vita, e il male consiste in ogni agire e pensare che riporta la vita alla morte e l’ordine al disordine. Il che significa che, nonostante l’agire buono di Dio, le cose da lui distinte e vivificate custodiscono in sé l’originaria traccia del loro stato pregenesiaco e che l’uomo è stato creato "a immagine e somiglianza di Dio" non per affermare la sua superiorità metafisica su cose e animali, ma per proseguirne e perfezionarne il divino orientamento.. Il che spiega perché, quando fallisce, l’uomo fallisce nell’interpretare e utilizzare i vari esseri seconda la prospettiva distruttrice del caos, invece che secondo quella creatrice di Dio, e perché precipita così con l’intera creazione nel baratro di una violenza tanto autodistruttiva da obbligare Dio a una pressochè totale rifondazione del tutto.

E’ comune l’affermazione che il "vide che era cosa buona", che accompagna e conclude ogni atto creativo, si riferisca agli esseri così prodotti, come fossero buoni in sé, nel loro essere fattuale. E’ un errore teologico grave, che porta ad enfatizzare la perfetta bontà della creazione e non consente poi di capire donde viene la presenza in essa del male. Ma soprattutto è un errore esegetico. Un errore di lettura del testo, il quale in ogni modo ci indirizza verso la comprensione che la "cosa buona", che Dio vede e giudica, è la propria azione, la propria intenzione creativa ed il suo esito iniziale. Gli esseri in sé restano creature ordinate al bene, ma tali ancora non sono definitivamente. Questo se è vero, come è vero, che Dio non dice dell’uomo, fatto "a sua immagine e somiglianza" che è cosa buona, ma solo all’intera creazione, posta sotta la sua guida, e solo dopo averlo benedetto, avergli indicato i suoi compiti e dato i suoi precetti. Solo allora l’uomo, insieme a tutto il creato, di cui è signore nella pacifica convivenza, diventa "cosa buona", anzi "molto buona".

Del resto il fatto che, poco dopo tale affermazione, il testo Sacerdotale senta il bisogno di riprendere l’antico racconto del diluvio e di riprenderlo con la constatazione che "la terra è corrotta davanti a Dio e piena di violenza", che per lei e per l’uomo, causa di tanto disastro, è venuta l’ora della fine, la dice lunga sulla provvisorietà e sulla precarietà di tanto bene. Anche se non la motiva e la dettaglia con immaginifici racconti di caduta e puntuali esempi di peccato e di violenza, come il suo predecessore Jahvista, il nostro teologo non è rispetto a quello meno drastico nel sottolineare la presenza del male nel mondo e la sua univerale potenza corruttrice.

Certo, potremmo essere tentati di spiegare la presenza di questo antico racconto d’ira e di divina violenza con l’appartenenza dei nostri due testi proto-biblici ad una cultura dominata dal mito e soggiogata dal fascino del potere assoluto dei celesti. Ma, se la spiegazione è evidentemente inadeguata per il Sacerdotale, vista la sua chiara presa di distanza da ogni retaggio mitico, non lo è meno per lo Jahvista. Per l’uno e per l’altro il diluvio non è tanto racconto di distruzione quanto di salvezza. E’ una sorta di nuova creazione, che riafferma non la potenza distruttiva ma la benevolenza di Dio e la Sua sapienza salvatrice, e che illumina non solo l’universalità di peccato dell’uomo, ma anche le sue capacità di giustizia e soprattutto l’importanza decisiva del suo contributo al successo salvifico dell’agire Dio. Cionondimeno, anzi proprio per questo, la loro ripresa di tale racconto è anche rivelatrice dell’attenzione da essi data al problema del male. Dio è bene, Dio è vita, ma di fronte a lui la forza del male, delle potenzialità di morte, presenti nel creato come residuo della sua negatività originaria, minacciano la sua opera fin nelle fondamenta. E questo perché l’uomo, animato dal soffio divino, fatto a Sua immagine, proprio come può collaborare alla riuscita dell’opera di Dio, può valersi di questo soffio o immagine per fare di sé una sorta di anti-Dio e del creato lo strumento distruttivo della creazione.

Tempi primi, realtà ultime e misteriose genealogie

Questa la natura problematica, la dinamica lacerata e lacerante della realtà che l’antica religiosità ebraica conosce ed esprime e in cui inserisce la fede nata dalla propria storica e contrastata esperienza di salvezza. E questa la base anche della successiva religiosità biblica.

Genesi 1, 1-2, 4 non è, infatti, solo il racconto della creazione ma anche quello del progetto escatologico di Dio, come li può concepire un ebreo dotto e credente del V sec. a. C. che intende così fissare i punti estremi del suo credo nel Dio liberatore e legislatore dell’Esodo e del rimpatrio da Babilonia. L’ordinata pace iniziale, che tale testo si figura, è anche la prefigurazione della pace finale che i profeti della scuola di Isaia stavano finendo di disegnare coi "nuovi cieli e la nuova terra" (Is 66, 22). Immagine di eterna serenita che corona quelle più antiche dell’ideale società agreste di pace (Is 11, 1-9) e della perfetta città dei giusti (Is 60). Il che, mentre, grazie all’artificio retorico-concettuale del legame tra inizio e fine, sembra aprire la strada alla lettura circolare del tempo cara al neoplatonismo ebraico e cristiano, si sposa altrettanto bene con la visione lineare e catastrofica della storia dei tardi apocalittici. Questi ultimi, infatti, annunciando la distruzione di quanto nel nostro mondo di peccato è residuo di ambiguità e fonte di rovina, sembrano sovrapporre al primo un secondo processo creativo, frutto delle rivitalizzazione dei giusti e dei "giustificati", la creazione di una realtà finalmente perfetta ed esente da ogni ulteriore pericolo di corruzione.

Ora, se sono deboli gli appigli che tali considerazioni trovano nelle prospettive culturali e teologiche del nostro autore, può essere importante ricordare che il testo Sacerdotale dedica due capitoli all’elenco dei patriarchi pre e posto-diluviani. Sono pagine che non sappiamo più leggere perché ci mancano i riferimenti culturali, storici e mitici, di nomi, personaggi e numeri. Ci basti ricordare che ogni volta che in tali serie genealogiche si apre una significativa divaricazione, essa viene segnalata dal termine "toledot", "generazione". Lo troviamo usato usato, la prima volta, a proposito dell’insieme degli esseri che costituiscono il creato (Gn 2, 4a); poi ad apertura della discendenza di Adamo (Gn 5, 1); della storia di Noè (Gn 6, 9), della genealogia dei suoi figli (10, 1) e di quella di Set, progenitore di Abramo (Gen 11, 10). L’autore ricuce così il legame col tema dell’elezione. Tutti gli uomini appartengono a un unico ceppo e sono parte dello stesso creato e della stessa storia; ma in quest’ ultima, si delinea un processo di selezione, che pone l’eletto al servizio dell’insieme dei viventi. Il particolare è finalizzato all’universale, ma l’universale attraverso il particolare si salva. E’ essenziale ricordarlo alla fine di una riflessione sull’universalità.

Aldo Bodrato


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