Monoteismo, idolatria e violenza
La Bibbia è un libro che ci racconta una storia come se questa fosse la Storia. E’ una finzione evidente, visto che della storia pretende di conoscere inizio e fine, ed inevitabile. Ma chi ne tiene conto? Chi si ricorda, quando deve misurarsi con una sua pagina, che la Bibbia si regge sul patto tacito tra autore e lettore su cui si reggono tutti i libri, vale a dire sull’intesa che la scrittura ha a che fare con la realtà, ma non è la realtà, bensì una sua libera proposta di lettura?
Non manca chi pensa che la letteratura, come interpretazione e come invenzione, come ricerca e proposta di possibili sensi dell’esistenza, sia frutto della modernità, e che la Bibbia, come parola di Dio o come parola umana di un tempo in cui dire e fare formavano un tutt’uno, possa sfuggire alle normali leggi del linguaggio e della comunicazione. Sbaglia.
Basta leggere la Bibbia per rendersene conto. Essa spazia in tutti i campi della creatività linguistica. Inizia e termina col mito, dà ali alla leggenda e al racconto fantastico, si misura col canto poetico, epico e lirico, si avventura nella riflessione sapienziale e filosofica, valorizza il proverbio, prescrive e raccoglie leggi, racconta storie e traccia un proprio modello di storia che non rinuncia alla ricchezza delle varianti e alla possibilità di continue aggiunte e correzioni. La Bibbia è "il Libro" che sa di essere un libro, un libro che si propone come chiave di lettura della natura e della storia. E’in quanto tale che essa diventa "canonica", non in quanto sostituto della realtà.
Ecco perchè chi pretende di ricavare dalla Bibbia la verità fattuale della natura e della storia non la trova. Semplicemente perché i fenomeni della natura e gli eventi della storia stanno altrove e vanno indagati con specifici processi conoscitivi, mentre la Bibbia è una parola che della natura e della storia non cerca i dati, ma i significati, non i fatti o le leggi, ma i fini: una parola che non descrive, ma interpreta e invita ad interpretare e a tradurre tale interpretazione in progetto e azione.
La Bibbia è in sostanza un libro di teologia, non di scienze e neppure di storia. Tutti lo sappiamo, tutti lo diciamo, ma poi, quando troviamo in essa qualcosa che si discosta dai risultati delle scienze e della storia, subito ci blocchiamo. Non è colpa nostra. E’ responsabilità di un tipo di lettura e di interpretazione che ha insistito per secoli sull’inerranza materiale e letterale della Sacra Scrittura, che ha tentato di imporre tale lettera alla scienza e alla storia. Ma è ora che ce ne rendiamo conto e ce ne liberiamo, anche perché tale lettura massimalista e distorta della Bibbia porta con sé letture massimaliste e distorte del suo insegnamento teologico e morale.
Il monoteismo come lenta conquista
E’ luogo comune che Israele si distingue dagli altri popoli dell’antichità per la sua visione monoteistica di Dio, e che tale visione, continuamente insidiata dall’influenza idolatrica straniera, lo accompagna sostanzialmente inalterata in tutte le tappe della sua storia da Abramo a Gesù. E’ una convinzione che prende spunto dalla versione biblica dell’avventura religiosa di Israele e che trova solide ragioni nella particolare profondità e acutezza della teologia proposta dalla Bibbia. Ma è una visione che va ripensata nei suoi sviluppi ed anche in parte nei suoi esiti.
Gli esegeti dell’Antico Testamento lo ripetono ormai da decenni: come è tarda l’origine degli scritti che hanno costituito la base dei primi libri della Bibbia, così è tarda la visione teologica che essi propongono. Tarda e non del tutto inedita, a partire dal tema della creazione per finire con quello della donazione della legge. Nell’uno e nell’altro caso Israele si ispira a modelli mesopotamici, riprendendone e rielaborandone i miti dell’origine, traducendo in termini di propria vocazione di popolo i teologumeni della divina elezione del re e della divina consegna della legge.
Certo la Bibbia non si limita a riprendere e a ripetere. Essa riprende e rielabora, anzi rilancia il pensiero ben oltre i confini da esso già raggiunti nell’esperienza umana e nella cultura dei suoi ispiratori. Ma proprio qui sta il suo interesse: non nell’essere la prima e la sola, ma nell’essere compagna critica e acuta del comune pensiero umano, nella forza di profondità e di creatività che in esso inserisce. Il suo destino di parola ispirata si gioca nel contesto storico dello sviluppo della cultura umana e non al di fuori di esso. E questo destino la Bibbia lo porta in sé, come parola che diventa libro nella storia attraverso un lento processo di formazione e che a crescere continua per mezzo delle attualizzanti letture dei suoi interpreti.
Riconoscere che Israele giunge al monoteismo non a seguito di una rivelazione totalizzante o di una intuizione originaria, ma alla fine di un lungo processo storico di autoidentificazione culturale e spirituale, non è allora solo un dato storico ed esegetico, imposto dall’esame delle fonti, ma un elemento teologico di grande rilievo. Ci aiuta a capire meglio come il cammino storico nel riconoscimento teologico di Dio formi un tutt’uno col processo della sua storica rivelazione. Ci permette di meglio comprendere come la fede biblica, pur rimanendo unitaria nelle sue linee di fondo, abbia potuto crescere e trasformarsi nelle sue stesse caratterizzazioni essenziali. Ci invita a considerare che tale cammino può in Gesù il Cristo aver toccato il suo vertice, ma che lì non si ferma e resta aperto a nuovi e indispensabili approfondimenti.
Del resto chiunque può rendersi conto che i libri storici e profetici, quando denunciano le cadute e ricadute del popolo nell’idolatria e lanciano parole di fuoco contro l’abitudine degli ebrei dell’età post-davidica a mescolare il culto a JHVH con quello a Baal e Astarte, non segnalano tanto la corruzione del monoteismo mosaico, quanto la difficoltà del suo affermarsi e il persistere di Israele nell’antica religiosità politeista, comune ai popoli della "mezzaluna fertile". Prima di diventare Dio di tutti gli uomini, il Dio dell’Esodo deve combattere per imporre il suo culto come unico Dio di tutti gli ebrei. Ancora nei primi anni del ritorno dall’esilio la Bibbia ci segnala tensioni tra la chiara scelta monoteistica delle élites intellettuali reduci da Babilonia e la tendenza sincretista delle masse diseredate rimaste in patria. L’insegnamento del Deutero-Isaia sull’universalità di JHVH, Dio nazionale di Israele, creatore dei cieli e della terra, Signore di tutti i popoli, e sull’irrazionalità dei culti idolatrici, insegnamento che sta alla base della stesura finale del Pentateuco, nasce in Babilonia non come semplice recupero di verità antiche, ma come esplosione di verità nuove, frutto di una profonda e radicale rielaborazione degli insegnamenti della tradizione.
Il che significa che la Bibbia introduce nella cultura religiosa del mondo antico idee inedite, ma che le introduce non come un Deus ex machina, non come un miracolistico corpo estraneo, ma come originale esito di un processo culturale di comprensione e di chiarimenti interno alla storia, come la rivelazione di un Dio incarnato nel processo di autocomprensione di un popolo, anzi, attraverso questo popolo, di un intero contesto culturale.
Quando la Bibbia prescrive la violenza
Prenderne atto non è poca cosa, anche perché ci consente di chiarire, tra l’altro, il valore teologico della polemica anti-idolatrica, presente nei testi esaminati negli articoli scorsi, e di meglio individuare i limiti storici e culturali dei loro tanti inviti all’uso della violenza per la difesa dell’integrità della fede.
Non possiamo nasconderci, infatti, che la durezza con cui il Pentateuco tratta il tema dell’idolatria è sconcertante, dal momento che non la combatte con strumenti dialettici di persuasione, come il Deutero-Isaia, ma con l’anatema dogmatico e con la spada. Nel famoso episodio del vitello d’oro Mosè, dopo aver implorato e ottenuto perdono per il popolo peccatore, improvvisamente ordina ai Leviti, rimastigli fedeli, di passare a fil di spada tremila trasgressori del divieto d’immagini, escluso Aronne (Es 32, 25-29). Ed è anche inauditamente più spietato nei confronti delle donne e dei fanciulli catturati a Madian (Numeri 31, 13-18) e degli abitanti di Canaan, imminente oggetto di conquista (Deuteronomio (20, 10-20).
Abbiamo già osservato, a proposito delle leggi di guerra dettate da questo passo del Deuteronomio, e della loro puntuale esecuzione nei casi di Gerico e di Ai (Giosuè 6-8), che esse non poterono mai essere né promulgate né applicate, perché conquista non ci fu, almeno nei termini previsti e descritti dai testi incriminati. Lo stesso possiamo dire per i casi del vitello d’oro e delle vittime madianite. Non ci furono mai tremila ebrei maschi radunati tutti insieme nel deserto e docilmente disposti ad essere massacrati da poche decine di Leviti e mai ci fu una spedizione militare dei profughi dell’Egitto contro Madian, come ammette persino la Bibbia di Gerusalemme, in nota al capitolo 31 dei Numeri. Ma allora a che pro inventare stragi tanto efferate?
L’unico modo di spiegarlo è pensare ad una presenza così massiccia di usanze idolatriche in Israele al tempo degli estensori di questi testi, vale a dire all’epoca del ritorno dall’esilio, da costringere i difensori del monoteismo Jhavista a combatterle, se non con le armi, che non possedevano, con l’ideologia delle armi, cioè con la minaccia dissuasiva di stragi mai avvenute.
Il che ci consente alcune riflessioni. La prima, su cui non ci dilunghiamo perché già sviluppata, è la conferma della lentezza e della difficoltà con cui il monoteismo si afferma in Israele. La seconda riguarda la possibilità che nella Bibbia emergano vie di pensiero e d’azione in profonda contraddizione con la sua stessa linea di fondo, vale a dire la possibilità per la fede ebraico-cristiana di commettere errori gravissimi di valutazione etica e teologica.
Anche di questo devono rendersi conto i lettori della Bibbia. Proprio perché storicamente e culturalmente intessuta col processo umano di crescita, la Sacra Scrittura può imboccare strade senza uscita. L’importante è che presto le abbandoni e le rinneghi. Così è stato di fatto nella storia della spiritualità e della teologia biblica antico e neotestamentaria. Ma il fatto di avere successivamente dato voce a molti elementi di contrapposizione e di rifiuto di questi fittizi inviti alla violenza, non ha purtroppo impedito alla Bibbia di diventare fonte e modello di violenze vere da parte di chi pensò di trovarvi la divina legittimazione alla pretesa di imporre con la forza la propria fede. E questa è la terza riflessione, riflessione che ci esorta ad essere estremamente cauti nell’attribuire valore universale ed eterno a qualsivogli affermazione di verità che nella Bibbia ci accade di trovare. Anche la migliore teologia può sbagliare ed anche Dio, incarnandosi nella storia dell’uomo, può dover correggere l’immagine di sé che gli è capitato di aver fatto emergere in essa.
Verso il superamento dell’idolatria
Per non discostarci troppo dal tema del monoteismo e dell’idolatria, possiamo tentare di cogliere tale dinamica teologica a partire dal passo, più volte citato, del vitello d’oro (Es 32). Esso non va letto come una specie di abiura di JHVH da parte del popolo, ma come un tentativo di Sua istituzionalizzazione in Dio socialmente identificabile e riconoscibile con oggettiva chiarezza.
Spaventati per la lunga assenza di Mosè, infatti, gli ebrei, incapaci di stare senza un capo visibile, non chiedono ad Aronne di costruirgli un idolo qualsiasi, ma di fabbricargli un trono sacro che sia segno della presenza di JHVH in mezzo al popolo, ed Aronne esegue e presenta loro il vitello con queste parole: "Ecco il tuo Dio Israele, colui che ti ha fatto uscire dall’Egitto"( 32, 4).
Questa scena è la trasformazione in evento fondatore di peccato di un fatto storico, raccontato da I Re. Geroboamo, dopo essersi separato dal Regno di Giuda, decide di valorizzare gli antichi luoghi santi di Betel e Dan per contrapporli al Tempio salomonico. Fa costruire due vitelli d’oro e li colloca in tali santuari, che si trovano nei confini del suo regno, dicendo al popolo: "Siete andati troppo a Gerusalemme! Ecco, Israele, il tuo Dio, che ti ha fatto uscire dall’Egitto" (12, 25).
L’intento di Geroboamo è evidente e così pure quello dello scriba teologo, che ne enfatizza la colpa, proiettandola nel tempo leggendario del deserto. "Il culto a Dio - pensa il primo - è un forte connettivo sociale e la gestione del suo tempio un vero affare economico e politico". "L’uso del nome di Dio e del suo culto a tale fine equivale all’idolatria - conclude il secondo - e va respinto, anche se JHVH ne uscisse materialmente esaltato".
Chi dice che in questo modo l’autore del nostro passo dell’Esodo difende la legittimità del Tempio gerosolimitano contro gli "Alti Luoghi", dice giusto, ma dice poco, perché il senso del passo va oltre questa contesa tra santuari e finisce col relativizzare qualsiasi richiamo al Tempio od ad altri luoghi santi. Al posto del vitello d’oro, Dio indicherà a Mosè l’Arca Santa, con le tavole della legge, come suo trono e segno di presenza e, perduta Arca e tavole, resterà la legge scritta nei cuori del popolo, come affermano il Deuteronomio e Geremia, resterà il culto reso a Dio nella carità e nella giustizia, come sostengono in coro i profeti, resterà Dio riconosciuto nel Crocefisso e servito nei poveri, come ribadiranno i vangeli. Ecco il vero monoteismo e il vero superamento non violento dell’idolatria. Ecco un percorso teologico, alla ricerca di Dio, che vediamo ìniziare, sbagliare strada, correggersi e continuare, ma di cui ancora ci sfugge la fine.
Aldo Bodrato