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La nascita di un popolo: il modello Israele (2)

Non so se qualche lettore si è accorto che negli ultimi articoli, a proposito dei testi che ci raccontano l’esperienza della formazione del popolo ebraico, mi sono prima riferito al Pentateuco, coiè all’insieme dei cinque scritti che compongono la Torah (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio), e poi all’Esateuco, vale a dire agli stessi con l’aggiunta del libro di Giosuè, per un totale di sei. E’ un’incertezza che segnala la difficoltà che si incontra quando si tenta di definire le pagine bibliche da considerate fonti documentarie della fede ebraica dell’origine.

Ecco un’altra tra le infinite ragioni per cui la Bibbia va letta come un libro. Essa, come qualsiasi libro, è soggetta alla critica filologica e storica, una critica che continua il suo lavoro mentre noi stiamo leggendo e che ci obbliga a tenere l’interpetazione sempre aperta e attenta al parere altrui. Una lettura comunitaria è anche questo: tenere conto di ciò che insegna la tradizione e di quel che pensa il nostro vicino, dare ascolto al teologo di un’altra lingua e al pastore di una confessione sorella, non perdere mai di vista quel che rimugina lo storico e ipotizza il filologo. Condurre insomma una lettura in dialogo per tentare di farne un work in progress, un lavoro aperto, ben più che un improbabile capolavoro.

E’ lo scopo di queste pagine: leggere per insegnare a leggere e, nel caso, per farci capire che nella ricostruzione della formazione del pensiero biblico ci si muove su un terreno capace di infinite suggestioni, all’interno di un testo indocile ad ogni definizione, costruito a scatole cinesi, pieno di rimandi e di riprese, di passaggi e di legami segreti, di articolazioni evidenti e nascoste che ne impediscono la disarticolazione in parti separate e l’assimilazione a bocconi. Non per nulla, mentre la tradizione antica chiude il tempo delle origini di Israele col Deuteronomio e parla di Pentateuco, la critica moderna prende in esame altre possibilità di suddivisione e parla appunto con Wellhausen e Von Rad di Esateuco, ma anche di Tetrateuco o "quattro rotoli", con esclusione del Deuteronomio, e addirittura di Ennateuco, "nove rotoli", con inclusione di Giudici, 1/2Samuele e !/2 Re (J. L. Ska, Introduzione alla lettura del Pentateuco, Dehoniane1998, pp. 14-19)).

Una sola legge, tanti codici

Non discutiamo queste tesi, ma sottolineiamo che nella nostra ricerca di ciò che la Bibbia dice sulla formazione del popolo ebraico i testi da utilizzare si restringono o si ampliano a seconda dell’aspetto che di tale processo vogliamo prendere in esame. Allorchè intendiamo mettere a fuoco la presa di coscienza ebraica della dimensione storica del proprio essere, della natura liberatrice del Dio che lo fa esistere, dello stretto legame che unisce Dio e destino di Israele, il riferimento al Tetrateuco è già più che adeguato. Ma se il nostro interesse si rivolge al momento in cui questo popolo si fa adulto e dichiara chiuso il periodo della formazione, ecco che la narrazione deve ampliarsi alla conquista della terra promessa, all’abbandono del deserto, alla fine della manna e all’inaugurazione dell’autosufficienza, vale dire al libro di Giosuè.

E’ l’Esateuco l’orizzonte narrativo entro cui si disegna la storia della nascita e della crescita di Israele fino all’uscita dall’infanzia. Ma, ancora una volta, questa acquisizione non è definitiva, perché, qualora ci si soffermi, in tale storia, sul dono e sul ruolo della legge, nucleo di tale formazione, ecco che non possiamo passare con Giosuè il Giordano, ma dobbiamo fermarci a Mosè e ai suoi ultimi ipotetici discorsi ai confini della terra promessa, al suo testamento prima della morte, al Deuteronomio. Dobbiamo cioè tornare dall’Esateuco al Pentateuco.

Tutto l’apparato legislativo di Israele si trova, infatti, raccolto nei libri della Torah e la Torah attraversa il Giordano, almeno narrativamente, già interamente costituita, nelle sue regole e nelle sue eccezioni, nei suoi codici originari, addirittura mitizzati in tavole di pietra, e nei codicilli aggiuntivi, comprese le specificazioni causidiche e le correzioni aggiornatrici. Dopo la morte di Mosè non una sola linea viene aggiunta alla legge, non una sola correzione apportata. Intere generazioni di giudici e di re, secoli di vita sociale e civile, trasformazioni storiche e culturali profondissime sono documentate dalla Bibbia e dalla storia senza che una sola legge venga promulgata o riscritta. Così non è sicuramente nei fatti, ma così è nel loro racconto biblico.

La cosa non può non colpirci. Ci segnala per un verso, in modo incontrovertibile, che almeno fino al V secolo a. C. e alla ricostituzione di Israele come popolo, dotato di autogoverno all’interno dell’impero persiano, i libri della Torah sono stati libri in formazione. Per un altro ci dice che, proprio in quegli anni, a seguito della propria secolare esperienza di conquista e di perdita della libertà, di suo parziale recupero, Israele risistema le antiche tradizioni in modo da costruirsi un libro che gli serva da memoria identitaria, da scuola e da guida per il futuro. Un libro in cui riconoscersi e da cui essere aiutato a misurarsi con l’elezione divina come compito storico, con Dio come destino.

Che ruolo ha la legge in tutto ciò? Un ruolo fondamentale e costruttivo. Un ruolo strettamente legato all’autocoscienza ebraica E’ chiaro, infatti, che l’intero arco della narrativa storica di Israele, che va dalla creazione all’esilio, da Genesi ai libri dei Re, è una storia esemplare, il racconto di un’avventura umana modello, che ha nei testi della Torah il suo centro e il suo cuore nella Torah stessa.

E’ la legge che fa di Israele un popolo libero. E’ la legge che lo tutela dal pericolo di ricreare condizioni di schiavitù. E' la legge che rende attiva la presenza di Dio accanto a lui. La legge, non come criterio di giudizio o strumento di autogiustificazione, ma come stimolo alla crescita e come esercizio di responsabilità. Il che spiega perché la legge sia presentata come un dono gratuitamente offerto da Dio, ma anche come un dono che va liberamente accettato, nel contesto di un patto. E spiega pure perché debba essere un’acquisizione del tempo della nascita e della prima formazione, più che una conquista dell’adolescenza e dell’età adulta. "Perché questo comando che io ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi a prendercelo e farcelo udire, così che possiamo eseguirlo? Non è al di là del mare, perché tu dica: Chi lo recupererà per noi oltre le onde? Anzi questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica." (Deuteronomio, 30, 11-13).

La legge è la quintessenza dell’identità di Israele, è la sua libertà di popolo fatta vita. Non può seguire la pratica. Deve nascere con essa, rivelandosene il fondamento. E’ il risvolto relazionale ed operativo dell’elezione e della vocazione, della risposta di fede alla chiamata. Tant’è vero che può essere riassunta nel doppio precetto dell’amore di Dio e del prossimo, chiave di volta del tema legge per l’Antico e per il Nuovo Testamento, e questo indipendentemente dal fatto che, per tradursi in realtà storica, essa, la legge, si sia poi dettagliata in codici, in casi e sottocasi, in una ricaduta a cascata di precetti e di norme, capaci, assolutizzandosi, di svisarne e tradirne il senso originario.

Attribuito interamente a Dio e legato alla figura fondatrice di Mosè, benchè sia nato dall’esperienza storica di Israele e sia con essa cresciuto, adattantosi alle trasformazioni sociali e culturali di oltre cinque secoli, l’intero apparato legale della Bibbia è stato raccolto nel Pentateuco proprio per esprimere la convinzione che esso appartiene al fondamento del popolo, che è carne e sangue della sua vita e non può esserne separato. Questo nonostante sia un apparato complesso, costituito da almeno tre grandi codici: il "Codice dell’alleanza", corrispondente ad una società articolata in nuclei sociali locali e autonomi, quello deuteronomistico, basato sulla centralizzazione del culto e del potere, e infine "la legge di Santità", post-esilica e caratterizzata dall’idea della "santità", ossia dalla "separazione" di Israele dalle altre nazioni ( J. Ska, Op. cit, pp.213 219).

Una sola legge, dunque, e molti codici, ma soprattutto molte versioni della legge stessa. Versioni che si correggono e si integrano, si arricchiscono e si smentiscono nella continua ricerca di fedeltà e di concretezza storica, ma che mai si cancellano e si aboliscono. Una sola legge che ha addirittura due versioni dello stesso decalogo (Esodo 20 e Deuteronomio 15) e due testi delle Tavole del tutto difformi tra loro (Esodo 20 ed Esodo 34), scritte o dettate direttamente da Dio. Una legge che diventa subito interpretazione molteplice della legge e che inscrive in sé questa interpretazione, elevandola a propria unica e autentica dimensione veritativa ("eseguiremo e ascolteremo" (Es 24, 7). Una legge che non è vincolata ad altro, se non al principio divino di legalità: al comando di non avere altro legislatore che Dio e altro precettore ed interprete del proprio agire che la responsabile intelligenza del proprio cuore.

La Carta delle libertà

"La legge non costringe ma scioglie. Non assoggetta ma libera. Non chiude ma apre". Così Gabriella Caramore sintetizza ciò che Paolo Ricca afferma nelle sue pagine su Le dieci parole di Dio (Morcelliana 1998, p.15). E Ricca precisa che molti comandamenti del decalogo sono frutto della pratica legislativa dei popoli dell’oriente a cui Israele appartiene. Non sono originariamente parola di Dio. Tali diventano quando vengono inseriti nel contesto di quell’epico racconto di liberazione, di quella libera struttura pattizia, che ne fa "la Carta della libertà" (Ivi, p.23-26).

Ma non è solo per la sua storia di formazione, per il contesto narrativo, che la sintesi della legge, racchiusa nel decalogo, è radice di libertà. Lo è anche nella forma dell’enunciazione e nella sostanza del contenuto. La formulazione prevalentemente negativa, denunciata spesso come sintomo di autoritaria chiusura, è in verità segno grande ed essenziale di apertura alla responsabilità.

Come esprimere meglio l’infinità dello spazio disponibile alla libera espansione del nostro essere, che attraverso la proibizione di quanto in esso realizzerebbe una contraddittoria forma di dominio e di oppressione dell’altro? Come meglio indicare che il bene non sta nell’obbedienza passiva, ma nell’attiva capacità di invenzione, che attraverso la definizione del suo limite rispetto al male? Come staccare meglio l’agire etico dal fantasma del merito e della retribuzione, che indicando quanto è di per sè già indice di rottura di relazione e sintomo di disperante solitudine?

E’ sufficiente leggere l’insieme delle azioni proibite dal decalogo per rendersi conto che esso non si propone di mettere dei paletti, che blocchino la nostra azione, ma di indicarci in una vita aliena dalla violenza, dalla gelosia e dall’invidia, dalla bramosia sfrenata, l’unica via che consente di realizzarci come esseri liberi e liberanti. Se a questo aggiungiamo il prologo teologico sull’unicità di Dio, il divieto di adorarlo con culti idolatrici, l’invito a rispettare il riposo del sabato, abbiamo la conferma di trovarci di fronte ad una legge il cui scopo è la lotta alla schiavitù.

Il decalogo non è una divina rivendicazione di dominio esclusivo e terrificante. Costituisce invece una barriera invalicabile alla stessa teocratizzazione del potere. Solo a Dio il popolo deve obbedienza, ma nessuna sua immagne può asservirlo. Nessuna immagine fisica e nessuna immagine concettuale e teologica univoca. Dio non è qui presente tra il popolo come un faraone, come un vitello d’oro da servire o come un Onnipotente da temere. E’ presente come legge da interpretare e da applicare con coscienza di causa. E’ presente come invito al superamento di ogni violenza.

L’uomo non può afferrare Dio per sottometterlo al suo volere, proprio come Dio non afferra l’uomo per asservirlo alla propria adorazione. Il rapporto tra loro è rapporto di libertà e di reciprocità. Il che non può non ripercuotersi nella relazione dell’uomo con l’altro uomo e con se stesso, come mostra la legge del sabato, la sola che, insieme al divieto delle immagini e alla tutela del Santo Nome, sia tipica del diritto biblico e faccia del suo popolo un modello insostituibile.

La legge che prescrive il riposo del sabato, per liberi e schiavi, uomini e bestie, ripresa e ribadita in quelle dell’anno sabbatico e della ricorrenza giubilare, non è un’aggiunta culturale e secondaria alla legislazione storico-naturale degli altri comandamenti. Ne è l’essenza teologica, il fondamento ideale. Col suo doppio richiamo alla liberazione dall’Egitto (Dt 5, 15) e al settimo giorno della creazione (Es 20, 11), ci dice che la legislazione del deserto è fatta per sottrarci al dominio dei poteri storici e delle potenze naturali. Ci dice che il nostro tempo, il proprio della nostra vita, non sta nelle mani dei faraoni o in quelle delle stelle. Sta nelle mani di Dio che sono le nostre, perché Egli ce le ha donate, insegnandoci che il loro operare non può essere buono, se di se stesso non è padrone, se non sa fermarsi, prendere da sé le distanze e gratuitamente godere del suo lavoro.

"Il giorno del sabato lo straniero e lo schiavo, in riposo con Israele, fanno del mondo una sola famiglia, nella terra promessa. Ma intanto il mondo soffre sotto il peso di un lavoro senza legge e senza altra prospettiva che un aggravamento illimitato delle fatiche e dei pesi (violenza spesso mascherata da "legge del lavoro e dell’economia"). Il sabato è solo un’interruzione della violenza. Non guarisce l’ingiustizia, ma almeno la sospende e la denuncia". (P.Beauchamp, Le récit, la lettre et le corps, 1982, pp. 192-193). Così è di tutta la legge, e fino a che ci saranno "liberi e schiavi" è bene che non una sua sola iota cada o venga prematuramente congedata. 

Aldo Bodrato


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