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Così nasce un popolo: il modello Israele (1)

Che la Bibbia sia un libro, ma non un libro qualsiasi lo andiamo ripetendo dal primo articolo e ,credo, ne abbiamo dato più di una ragione. Non ci siamo però ancora soffermati su quella più evidente, la sua vocazione a presentarsi come un’autobiografia potenzialmente universale.

Salta subito agli occhi un altro dei paradossi del nostro testo. Come è possibile che un libro sia autobiografico e al tempo stesso universale? Per fare ciò bisognerebbe che l’autore fosse contemporaneamente uno e centomila, col rischio di risultare nessuno. E questo è proprio ciò che accade alla Bibbia, che è frutto di uomini e di secoli diversi, che non consente attribuzione ad autori singoli, che si presenta come testimonianza ed eredità di una tradizione, che ama circolare sotto il nome di Un Innominabile, che chiede ad ogni lettore, da qualsiasi esperienza culturale provenga, di farla propria, di leggerla e interpretarla come se si trattasse della sua storia personale, di immedesimarsi talmente coi suoi detti da incorporarli: "Porrete dunque nel cuore e nell’anima queste mie parole, ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi, le insegnerete ai vostri figli, parlandone quando sarai seduto in casa e quando camminerai per via…" (Deuteronomio 11, 18-20).

Non per nulla la Bibbia è detta anche Testamento o Documento dato in eredità ai lettori come testimonianza di un’alleanza che li coinvolge. E non per nulla, tanto come Nuovo quanto come Antico Patto, mentre riguarda una comunità particolare, il popolo ebraico o l’assemblea (chiesa) delle genti, è aperto all’universalità degli uomini.

Ogni pagina della Bibbia ci riguarda, perchè nulla in essa è presente come cronaca oggettiva di fatti o come verità sovrastorica impersonale. Tutto ciò di cui essa ci parla costituisce un’esperienza esemplare, che si ripete e si arricchisce di generazione in generazione per giungere a noi, con immutata efficacia. Tutto, compreso il nome di Dio, che è nome di compagno fedele, e compresa la coscienza della nostra problematica e incerta fedeltà di uomini.

L’attraversamento delle acque

E’ tipico dei diversi credo biblici, sparsi nei testi storici, profetici e sapienziali, parlare dell’esperienza di fede degli ebrei attraverso il richiamo alle vicende dell’Esodo e in particolare all’uscita dall’Egitto col mirabile passaggio delle acque, che evita agli schiavi fuggiaschi lo sterminio ad opera dell’invincibile esercito del Faraone e che assurge a ruolo di evento fondatore.

Più di un esegeta osserva che si può cogliere, nelle immagini che caratterizzano il racconto di tale episodio, la ripresa di temi tipici dei miti di creazione e , in ogni caso, l’afflato emotivo della narrazione di una nascita difficile e tormentata e, proprio per questo, piena di promesse e di speranze (P.Gibert, Bibbia miti e racconti dell’Inizio, Queriniana 1993, pp. 147-162).

Nessun altro evento ha tale rilievo nella spiritualità ebraica, perché nessun altro è, come questo, sentito ultimativo. Ne va della vita o della morte dei protagonisti; ne va dell’esistenza stessa del libro e, perché no, del suo lettore. Ne va della Bibbia come libro dei libri e come Parola di Dio.

Ci basti pensare al modo in cui nell’Esodo si arriva a tale evento, che apre l’avventura del deserto, e a quello in cui esso viene ripreso all’inizio di Giosuè, che tale avventura chiude per inaugurare la nuova pienezza di vita nella terra promessa.

Nel primo caso abbiamo la storia di un uomo, Mosè, la cui nascita è proibita dal Faraone, ma che, salvato dalle acque, diventa il segno umano della volontà di Dio di rivelarsi attraverso la liberazione di un popolo dalla schiavitù. Abbiamo il crescere dei segni (le dieci piaghe) della potenza di questo Dio, in lotta con la prepotenza del "dio-re" egizio, e il venire al dunque di questa sfida davanti alle acque invalicabili del mare. Se Israele passa, è salvo. Se si ferma, la sua morte come popolo è certa. e l’atto liberatore e rivelatore di Dio abortisce prima ancora di aver preso forma (Es 14-15). Nel secondo caso abbiamo un altro uomo, Giosuè, cresciuto alla scuola di Mosè e formatosi coi suoi compagni nei quarant’anni del deserto, che ripete cerimonialmente l’antico passaggio, compresa la separazione delle acque, per entrare, attraverso il Giordano, in una terra dove potrà vivere come popolo indipendente, a testimonianza della potenza e della fedeltà di Dio e a riprova della capacità umana di essere Suo interlocutore, adeguato ma non affidabile (Gs 3-4).

I due eventi sono così concettualmente vicini che si fondono nel canto di vittoria, messo in bocca a Mosè nel cap. 15 dell’Esodo dallo stesso tardo redattore che attribuisce a Miriam la sua versione più antica e sintetica ("Cantate a Jhvh / perché è sublime: / cavallo e cavaliere / ha precipitato nel mare" 15, 21). Mentre i versetti 1 - 12 , infatti, esaltano l’attraversamento del mare a piedi asciutti da parte degli ebrei fuggitivi e la catastrofica rotta degli egiziani, i versetti 13 - 18 illustrano il terrore che colpisce gli abitanti di Canaan all’arrivo degli ebrei vittoriosi.

"Al soffio della tua ira / si accumularono le acque, / si alzarono le onde/ come un argine, / si rappresero gli abissi / in fondo al mare. / …..Soffiasti con il tuo alito: / il mare li coprì, / sprofondarono come piombo / in acque profonde. / Chi come te tra gli dèi, Signore? / Maestoso in santità, / tremendo nelle imprese, / operatore di prodigi?" (15, 8-10). Questo il linguaggio che trasforma in mito di fondazione l’evento originario e questa la sua eco nella ripetizione rituale posteriore di quarant’anni: "Hanno udito i popoli e tremano; / dolore incolse gli abitanti della Filistea /…Tremano tutti gli abitanti di Canaan /…Restano immobili come pietra, / finchè sia passato il tuo popolo, Signore, / finchè sia passato il popolo/ che ti sei acquistato" (15, 14-16).

Un canto di nascita, dunque, che, dopo aver amplificato una performance poetica più antica, si converte nell’inno di un rito di passaggio. Tre testi, insomma, (performance, canto e inno) che, confluendo in un unico flusso di parole, evidenziano che l’avventura del deserto e la conquista di Canaan formano, così come sono a noi pervenute, un’unità narrativa e teologica molto stretta e che tale unità va considerata, più che una cronaca di fatti storici, una raccolta di eventi simbolici, destinati a illustrare le tappe della nascita, dell’educazione e del farsi adulto di un popolo.

Nutriti e dissetati come bambini

Certo l’insieme delle leggi e delle narrazioni storiche che costituiscono questi testi (Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio e Giosuè) non sono frutto di fantasia romanzesca, ma esito di una lenta e paziente raccolta di tradizioni poetiche e giuridiche secolari. La stessa densita della loro fusione, però, il modo articolato e sapiente in cui esse si intrecciano, si ripetono, si richiamano, si correggono o si confermano, per chiudersi alla fine come un’unità molteplice ma consonante, ci segnala che la loro costruzione finale segue un filo ideale più che storico, costruisce un messaggio spirituale più che una cronaca documentaria.

E’ il filo di un lento e contrastato processo educativo che dura quarant’anni e che obbliga colui che lo guida come un padre a provvedere in tutto alla vita dei figli ed evidenzia come questi siano, in realtà, sempre più pronti alla ribellione, alla protesta e al mugugno che alla riconoscenza e all’accoglienza attiva dei benefici ricevuti. Tanto che, nonostante la grandezza e la solennità della nascita, nonostante la sua mirabile riuscita, l’esito ultimo del processo di crescita resta sempre problematico e, ancora in ultimo, a chiusura del percorso compiuto, mentre viene confermato, viene, come vedremo, anche pesantemente rimesso in questione.

E’ sintomatico infatti che, subito dopo la mirabile salvezza ottenuta a spese dell’esercito del Faraone, le prime parole del popolo, appena iniziata l’avventura della libertà, siano parole di protesta per la condizione di indigenza in cui si trova e di rimpianto per le pentole piene dell’Egitto (Es 16, 3). Il testo non intende tanto denunciare così la durezza di cuore di quegli uomini, ma evidenziare la loro fragilità, il loro istintivo e infantile bisogno di sicurezza e di protezione. E la cosa si ripete quasi all’infinito. I vari miracoli, spesso moltiplicati dalla più che duplice tradizione, la manna, le quaglie, le acque, la nube che indica il cammino e protegge, le vittorie ottenute ad opera di Dio, le stesse maledizioni di Balaam trasformate in benedizioni, acquistano, in questa prospettiva tutto il loro rilievo. Ad un popolo bambino, che non fa che rimpiangere le sicurezze della passata schiavitù, si può chiedere solo la disponibilità a lasciarsi condurre ed educare e, nel frattempo, si deve procurarte tutto, dal cibo, alla sicurezza, dalle mete quotidiane all’incoraggiamento per bocca di profeti stranieri.

Israele è bambino e come tutti i bambini è testardamente legato alla propria condizione infantile. Ma è Israele a dirlo di sè ed allora lo dice a beneficio della coscienza universale. Israele scrive e rivive la propria storia delle origini come un cammino di formazione e la scrive e la rivive come modello per ogni uomo. La storia della sua nascita alla fede è la storia della nostra nascita alla fede e chi lo dimentica perde non solo il legame con le sue origini ebraiche, ma ogni possibilità di autentica vita cristiana. Perde l’opportunità di mettersi alla scuola della parola biblica di Dio.

Adulti, o quasi

E’ il caso di tenerlo ben presente per comprendere meglio noi stessi, ma anche per imparare a leggere e a capire la Bibbia. Chi ha l’abitudine di nustrirsi quasi giornalmente con la lettura di qualche sua pagina e magari di portarsela, come un diario intimo, nella tasca interna della giacca dalla parte del cuore, non può pensare che lo riguardino direttamente solo le pagine del Nuovo Testamento. Sono sua storia anche quelle dell’Antico. Sono scritti per lui anche gli episodi del vitello d’oro (Esodo 32) e della rivolta alle porte di Canaan (Numeri 14).

Ci fermeremo sul primo episodio nell’articolo prossimo, dove esamineremo il tema della legge. Qui ci interessa richiamare l’attenzione sul secondo, perché ci dice quanto l’Israele che scrive la Bibbia sia cosciente dei propri limiti e delle proprie difficoltà rispetto ai compiti che gli assegna la Parola, quanto sia critico verso di sé. Lo è al punto da porre al culmine stesso del proprio processo di formazione, del tempo mitico della propria nascita, il segno della propria costitutiva debolezza. Altro che particolarismo, altro che esclusivismo elettivo, altro che rigido legalismo!

Ma lasciamo parlare il testo che si trova nel cuore del libro dei Numeri. Dopo il lungo processo di formazione nel deserto, finalmente, gli schiavi fuggiti dall’Egitto sono alle porte di Canaan e ricevono notizia dagli esploratori sui popoli che abitano la terra loro assegnata da Dio. Il momento è cruciale. Il popolo deve dimostrarsi in grado di far fronte al compito per cui è nato ed è stato formato, ma esita, anzi rinnega le ragioni stesse di tanta faticoso impegno da parte di Dio. Rimpiange di non essere morto proprio nelle occasioni in cui Lui lo ha salvato: schiavo in Egitto, vinto dalla fame nel deserto. E’ a questo punto che Dio stesso sembra cedere. e rinunciare al suo sogno di creare un popolo libero. Se non abbandona Israele al suo destino, dopo averlo sostituito coi discendenti di Mosè, è solo perché quet’ultimo lo avverte che sarebbe Lui a perderci la faccia come liberatore: "Le nazioni che hanno udito la tua fama diranno: Siccome non è stato in grado di far entrare questo popolo nel paese che aveva giurato di dargli, li ha ammazzati nel deserto" (14, 16).

Il seguito lo conosciamo. Sappiamo che gli Israeliti adulti e ribelli, perché rimasti bambini, verranno lasciati morire di vecchiaia nel deserto e che saranno i loro figli, cresciuti nel frattempo, a conquistare Canaan e a dimostrarsi capaci di provvedersi cibo e acqua da soli, di saper affrontare lo scontro con i popoli di quella terra. Quello che tendiamo a dimenticare è che anche in questo caso l’autore, dopo aver segnalato più di un portento a favor di Israele e più di una sua trasgressione, pone l’atto finale dell’intera storia sotto il segno della provvisorietà.

"Voi siete testimoni contro voi stessi": è la firma che Giosuè pone in calce al giuramento dell’assemblea di Sichem, solenne rilancio del patto sinaitico (Giosuè 24, 22). E questo suona un po’ come se dicesse: voi vi impegnate come adulti coscienti ma non ancora come adulti maturi. Questa nascita è avvenuta, ma forse non sarà sufficiente. Ci vorranno delle rinascite.

I redattori e gli storici "deuteronomisti", che scrivono quest’ultimo libro dell’"Esateuco", e rielaborano tutto il materiale di quelli che lo precedono, dandogli la forma con cui ci sono pervenuti, già conoscono la minaccia babilonese e ben sanno che persino un israelita può essere tentato di preferire la schiavitù alla libertà. Altrimenti perché mai avrebbero conservato memoria della legge che ordina di marchiare all’orecchio, davanti a Dio e col segno infamante della schiavitù perenne, l’ebreo che rifiuta la libertà nell’anno sabbatico (Esodo 21, 5-6 e Deuteronomio 15, 16-17)? Perché? Se non perché è l’orecchio che ha ascoltato l’annuncio del Sinai e perché la rinuncia alla libertà è una vera e propria abiura, un vero e proprio rifiuto della manifestazione storica della volontà creatrice e redentrice di Dio? (P. Stefani, Fare la verità, in "Esodo" 1999, n.4).

Aldo Bodrato


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