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Dio al Sinai: l'essere come compagnia

(Letture di riferimento Deuteronomio26, 1-11 e di Esodo 3 e 6)

La Bibbia non può essere sostituita da un "Credo2. Il cammino che abbiamo intrapreso attraverso la Scrittura , a apertire dalla creazione, ci ha consentito di unire i grandi temi della professione di fede cristiana: la proclamazione della potenza creatrice di Dio e di quella redentrice di Gesù Cristo. Ma ci ha anche fatto toccare con mano che tali temi stanno insieme solo all’interno di una più articolata visione d’insieme della rivelazione di Dio, rivelazione che passa attraverso l’elezione di Israele, la sua lunga esperienza storica e religiosa e l’attesa escatologica del Regno.

La Bibbia articola sapientemente tali temi tra loro, il Credo no. Ne privilegia alcuni e ne tace altri, non senza qualche pericolo per i successivi sviluppi spirituali e teologici della fede stessa.

E questo non è tutto. La Bibbia ci mette a contatto con un atteggiamento di fede e con un linguaggio problematico e aperto, che ha poco a che fare col carattere dottrinario e spesso polemico dei prontuari teologici, nati per segnare confini e custodirli. La Bibbia cerca di favorire il dialogo e la riflessione, si propone come testo che unifica più che dividere, mira a coinvolgere più che a contrapporre, a promuovere identità più che a difenderle. Proprio per questo, benchè sia un libro che conserva e trasmette memoria, non si preoccupa di tradurla in formule e di imporla come un dato acquisito da conservare inalterato, ma la propone nella sua varietà molteplice e soprattutto ne sottolinea la vitalità creativa, suscettibile di sviluppo. Anzi si costruisce e vive come proposta e sviluppo dei suoi grandi temi di fede e come invito ad una crescita umana con essi coerente.

Lo abbiamo visto a proposito delle peripezie del tema della creazione e lo rivedremo in merito alle analoghe avventure di quello dell’elezione. La Bibbia è un libro che vive col lettore e che con lui progredisce. E’ un libro in perenne formazione, ed è tale perché tali sono i suoi protagonisti: le creature, certo, ma anche il Creatore; gli uomini, sicuramente, ma anche il loro Dio.

Le radici storiche del credo ebraico

E’ uso comune tra gli esegeti sottolineare (e anche noi lo abbiamo fatto) che una vera e propria teologia della creazione è assente negli strati più antichi della fede biblica e che ad essa si arriva tardi, passando attraverso la continua rielaborazione di una teologia della storia, che ha al centro i temi dell’elezione abramitica e della liberazione mosaica.

E’ sostanzialmente corretto, a patto che si accetti di considerare tardiva, frutto di lenta e complessa rielaborazione, anche quest’ ultima; vale a dire che si riconosca che tale teologia, assunta dall’esegesi degli anni sessanta a chiave di volta della spiritualità anticotestamentaria, è qualcosa di diverso da una dottrina evoluzionista della natura e da una concezione neo-hegeliana della storia. E’ una tra le tante proposte di lettura che la Bibbia ci offre della propria trama narrativa e per di più una proposta ricca di toni e sottotoni, passibile di molteplici sfumature interpretative.

Il che è evidente fin dall’esame del più classico dei testi citati a dimostrazione della valenza storica della fede di Israele, il cosidetto Credo ebraico del Deuteronomio 26, 1-11.

"Mio padre era un arameo errante. Scese in Egitto. Visse là forestiero. Divenne numeroso. Gli Egiziani ci imposero una dura schiavitù. Gridammo a Jhvh, Dio dei nostri padri, e Jhvh ascoltò il nostro grido. Ci condusse fuori dall’Egitto con mano potente e braccio teso e ci diede questa terra dove scorre latte e miele. Ed ecco, ora presento qui le primizie dei frutti del paese…" (Dt 26, 5-10)

La prima cosa che salta agli occhi è che il testo non ci parla di eventi strutturati all’interno di un piano storico-teologico guidato e voluto da Dio, ma ci presenta l’agire divino come l’intervento di un gohèl, di una potenza parentale protettrice e vindice, che si muove secondo lo schema: "oppressione, grido d’aiuto, soccorso, liberazione". La seconda cosa è che tutto ciò non si risolve nella restaurazione dello stato precedente, ma crea una trasformazione inattesa nel destino degli uomini in gioco, li fa passare da figli di un senza patria, da schiavi, a liberi beneficiari di una terra. Li trasforma in un popolo cosciente dei suoi debiti verso il suo Dio e dei propri doveri di ospitalità e di ripetto verso deboli e stranieri (Dt 26. 11) (N.Lohfink, Le nostre grandi parole, Paideia 1989).

Un credo storico, quindi, ma non una teologia della storia, e soprattutto un credo storico che interpreta l’agire di Dio secondo un modello d’intervento diverso da altri possibili modelli biblici, del tipo: promessa-adempimento, rispetto o infrazione dell’alleanza. Nulla di tutto questo e nulla che dia appiglio per una qualsiasi visione provvidenzialista della realtà e della storia.

Scritto negli anni della risistemazione deuteronomista delle antiche tradizioni, quindi al tempo dei re post-davidici, in prossimità della catastrofe dell’esilio babilonese, questo antico credo affronta la questione del radicamento storico della propria fede e lo fa riconoscendo che le vicende umane sono un fenomeno confuso, condeterminato da una serie di cause difficili da ricondurre ad un disegno unitario, anzi, per lo più, incomprensibili. Al tempo stesso, però, convinto che entro tale storia si possa scorgere una forza divina in grado di darle senso, cerca di evidenziarne la presenza all’interno della propria esperienza di popolo e la vede disegnarsi, non come un piano preordinato, ma come uno slancio liberatore ed edificatore di bene. Uno slancio che si manifesta attraverso la protezione generosa dei deboli e la loro costituzione in comunità altettanto generosa e protettiva.

Non ci sono d’altra parte ragioni per cui gli elementi cositutivi di questo passo non possano essere sottoposti ad una reintepretazione contestuale più ampia, ad una rilettura che li colleghi ad una visone della storia più articolata, comprensiva del tema creativo e di quello elettivo. Anzi l’evocazione di Jhvh come Dio dei padri e la sottolineatura della fecondità della terra, da Lui donata, ci indirizzano verso l’uno e l’altro di questi orizzonti. Ma sono cenni, che è giusto lasciare tali, per riconoscere che qui il tema è un altro. E’ il tema del Dio liberatore e promotore di una comunità capace di libera equità ed è tema che emerge singolo e giganteggia, come proclamazione di un evento che, meraviglia inaudita, accende una luce nel caos della storia e rende possibile indirizzarla su strade diverse dal puro e semplice affermarsi del brutale dominio della forza..

Jhvh, un Dio di uomini

E’ su questo tema che cercheremo di soffermarci prendendo in esame il testo, che senza essere esplicitamente citato, è qui talmente essenziale da fare corpo col credo stesso, vale a dire quella teofania sianitica in cui per la prima volta compaiono insieme tutti gli elementi che costituiscono il climax teologico del nostro passo: il Dio dei padri, il grido d’invocazione, l’intervento liberatore e la rivelazione del nome di Jhvh, come Dio di Israele.

Ho evocato un testo, credo ben conosciuto, e ancora una volta mi trovo di fronte a qualcosa di più complesso. La nota teofania del roveto ardente non ci è pervenuta infatti in una sola versione ma in due: cap. 3 e cap. 6 dell’Esodo; anzi in tre, dato che il cap. 3 è frutto della fusione di due tradizioni diverse. Del resto, sapendo che tutto il Pentateuco è nato dall’unione di Jahvista, Elohista e Sacerdotale, dovevamo aspettarcelo. Nulla è univoco nella Bibbia. Poteva esserlo la rivelazione del Santo nome di Dio, del suo impronunciabile e storico tetragramma?

Poteva, ma così non è. Eccoci allora a dover rendere conto, con un cenno almeno, di questa varietà, che non incide molto sulla questione della storicità della fede ebraica, ma contribuisce a segnalarcene la complessità e a farci sentire più pressante l’invito a non dogmatizzarla.

E cominciamo dallo Jahvista che può essere individuato nei versetti 1-5, 7-8a, 16-20 del capitolo 3. Rispetto all’Elohista (vv. 1b "monte di Dio", 4 b "Mosè,Mosè…eccomi", 6, 9-14) egli non ha il problema della rivelazione del nome di Dio, perché ne fa uso fin dalla prima pagina. In compenso ha praticamente in comune tutto il resto, in particolare il tema gohelico del suo legame coi padri, dell’ascolto del grido e della volontà salvatrice, compresa la promessa del dono di una terra stillante latte e miele.

Tutto jahvista è, però, il roveto e sarà proprio l’unione dell’immagine di questo spinoso cespuglio di fuoco con la narrazione Elohista della rivelazione del tetragramma, compresiva dell’etimologia ("Io sono colui che sono"), a decretare la straordinaria fortuna di questo capitolo dell’Esodo, a farne la chiave di volta della teologia anticotestamentaria.

E sul racconto così costituito al tempo della redazione deuteronomistica che ci fermeremo. Non prima però di aver dato un’occhiata alla prospettiva tutta diversa della versione sacerdotale, che non solo risolve elegantemente la questione del nome, facendo dichiarare a Dio: "Io son Jhvh, ma ad Abramo e figli mi sono rivelato come El Shaddai (Dio onnipotente)" (6, 2), ma anche articola la decisione dell’intervento liberatore in base allo schema: promessa-compimento (6, 4-8).

E’ chiaramente una prospettiva teologica, una chiave di lettura della storia e dell’evento sinaitico, totalmente diversa da quella fatta propria dai testi che hanno ispirato il credo deuteronomistico, ma non è una prospettiva che la delegittimi. Se mai diremmo che l’una e l’altra convivono relativizzandosi in ciò che le differenzia ed enfatizzandosi in ciò che hanno in comune.

In particolare è degno di nota il fatto che in tutti i passi citati emergano due motivi teologici, che è importante sottolineare prima di vederne la confluenza nell’interpretazione del santo nome, perché ne fanno parte inscindibile. Sono la capacità d’ascolto e d’attenzione rispetto alla condizione degli ultimi con cui Dio si autopresenta e la sottolineatura, anch’essa a tutti comune, del legame strettissimo che Dio pone tra il proprio essere e l’essere di uomini storicamente concreti, come Abramo, Isacco e Giacobbe.

La centralità della rivelazione implica, infatti, non di risalire dal mondo a Dio, bensì la discesa di Dio nel mondo; così che Egli si leghi inevitabilmente al posto, al luogo, ai testimoni della sua presenza nella storia. Il Signore stesso viene perciò a qualificarsi attraverso il suo rapporto coi nomi propri di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Mosè, di Israele, di Gesù.. Il suo nome è impronunciabile, perché Egli si colloca sempre al di là della sua stessa rivelazione; eppure è proprio legandosi a nomi propri di uomini, alla loro esperienza e presenza storica, che Dio acquista a sua volta un nome proprio, capace di risuonare nei tempi e nei luoghi in cui è a noi e agli altri possibile incontrarlo (P. Stefani, Il nome e la domanda, Morcelliana, 1988, pp. 22-23).

ehjeh asher ehjeh

E siamo al cuore della nostra riflessione, al tema della rivelazione del Nome come evento, non di portata metafisica, ma di rilievo storico-salvifico. Già tutto ciò che abbiamo detto sul contesto dell’episodio narrato in Esodo 3, 13-14 è eloquente. Dal punto di vista strettamente letterario verrebbe da aggiungere che questo straordinario snodo dialogico tra Mosè e il suo Dio è presente nell’Elohista, prima che per ragioni teologiche, per ragioni narrative. Egli ha finora parlato di Dio sempre come Elohim, ora deve motivare il fatto che questo Elohim (Dio) si chiama Jhvh, deve cioè enfatizzare la rivelazione del nome e lo fa con un dialogo essenziale ed efficacissimo.

Non è osservazione da poco. Ci dice che anche qui, come in tutto il resto della Bibbia, l’Ipsissimum Verbum Dei, la più pura parola di Dio è parola d’uomo. Nel caso parola di un dotto narratore-teologo, che cerca di spiegare cosa mai possa voler dire il nome proprio del Dio del suo popolo, e che lo fa giocando su una sua possibile etimologia teologicamente pregnante. I filologi e i teologi di oggi, che sanno che quel nome non è nato da Mosè, anche se forse può essere legato al Sinai, seguono altre strade, che non portano altrove, ma ruotano intorno a suoni di mistico riconoscimento, vicini a: "Eccolo", "E’ Lui" " Oh, Egli!" (M. Buber, Mosè, Marietti 1983, p. 50).

Noi diamo ormai per scontato che l’antica interpretazione patristica che leggeva l’"io sono" come l’affermazione di un "Essere, infinito e perfetto, trascendente ogni storica determinazione", si regge più sulla visione greca della realtà che su quella ebraica. Quest’ultima, anche nella lingua, non conosce l’uso di "essere" in senso assoluto e sostanzialistico. "Sono" è poi qui un "ero, sono e sarò" in senso di vicinanza costante, non di essenza immutabile. E’ la promessa di una prossimità, di un’amicizia fedele. di un’assistenza vigile. Dio cioè dichiara di voler essere il Dio di Israele e di volerlo essere nei termini in cui si sta rivelando, come Dio dei padri, attento al grido del popolo, vindice delle sue miserie, artefice della sua liberazione e della sua prosperità futura.

Chi vuole può anche leggere l’io sono colui che sono come rifiuto di rivelare un nome indicibile. Ma l’uso che il testo ne fa, aggiungendo:"Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato", ci fa capire che è un rifiuto che va in una certa direzione. Nega il nome affermando una presenza.

Le due cose non possono essere separate, né nel commento del nostro passo, né nella riflessione su un’eventuale teologia della storia. Sono il proprio dell’esserci trascendente di Dio tra noi. Un esserci che non è uno stare, ma un agire e che non si esaurisce in nessun evento presente, passato e futuro, perché è più che essere e che evento. E’ compagnia. 

Aldo Bodrato


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