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Dio, Parola di vita tra creazione e storia

Che la narrazione dell’origine non sia frutto di una speciale conoscenza di ciò che allora avvenne, ma espressione della più ardita ricerca del senso ultimo e quindi teologico di quanto ci accade nel presente, è puntualmente manifestato dai prologhi che i vangeli antepongono alla narrazione dell’esperienza apostolica di incontro col Nazareno.

Solo Marco ha, infatti, il coraggio di affrontare il suo tema senza preamboli e di presentare in tutta la sua dirompenza la novità teofanica della predicazione, passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Matteo e Luca premettono a tale evento rivelatore i racconti della nascita e dell’infanzia, corredati di un’opportuna genealogia, che ricollega il loro eroe ad Abramo, padre del popolo dell’alleanza (Matteo), e ad Adamo, capostipite di tutte le nazioni (Luca).

Ma è Giovanni, come bene sappiamo, che tutti li batte in arditezza narrativa e speculativa, introducendo i suoi lettori al racconto della prima manifestazione storica di Gesù con un magnifico inno al Verbo creatore e donatore di luce, che strettamente unisce in sé almeno due dei titoli fondamentali del Dio biblico: quello di essere il supremo ed unico principio di vita e quello di guidare sapientemente la storia con la sua parola. In verità Paolo sembra fare anche di più, nel momento in cui presenta Cristo come "primogenito di tutte le creature, perché in lui sono stati creati tutti gli esseri", "capo del corpo (storico), la Chiesa" e "primizia dei resuscitati" (Colossesi 1, 15-18). Ma l’attenzione al testo giovanneo a noi qui già basta ed avanza per illustrare il carattere della ripresa neotestamentaria del tema creativo.

Un solo Dio, ma un Dio in tensione e dialogo con se stesso

Già questo rapido cenno al diverso modo con cui cinque scritti del Nuovo Testamento affrontano il tema della contestualizzazione del loro racconto, inquadrandolo in una cornice che si richiama: ora alla forza dell’esperienza immediata (Marco), ora alla tradizione storica dell’Alleanza (Matteo), ora al complessivo destino dell’umanità (Luca), ora al fondamento creativo dell’universo (Giovanni), ora all’attesa del rinnovamento radicale della storia e del creato (Paolo), ci dovrebbe far riflettere sul carattere problematico e aperto di tutte queste prospettive teologiche.

Il Dio profetico dell’evento e della legge, quello sapienziale dell’umanità e della creazione, il Dio escatologico dei "nuovi cieli e della nuova terra", affondano le loro radici nell’unica tradizione letteraria e teologica della Bibbia, e a gruppi omogenei si coordinano anche tra loro in modo ragionevole, ma non si sovrappongono. Sono, infatti, portatori di istanze diverse, che riescono a stare insieme solo grazie ad una sapiente e paziente mediazione narrativa e teologica, quella mediazione che è appunto realizzata dalla Bibbia con la sua variegata e complessa unità.

Certo il Dio dell’alleanza, quello della creazione, il Dio dell’incarnazione e quello della Gerusalemme celeste non costituiscono un Panteon di divinità, come furono tentati di pensare alcuni gruppi eretici dei primi secoli, ma proprio in quanto costituiscono un’indivisibile unità, introducono all’interno di tale unità forti tensioni. Sono un unico Dio, presentato nei diversi aspetti del suo agire, ma anche nel mistero della "coincidentia oppositorum". Sono appunto un Dio di cui non ci si può fare immagine (Es 20, 4), che nessuno può vedere faccia a faccia senza morire (Es 33, 20) e che "solo il Figlio unico che è nel seno del Padre" può raccontare (Gv 1, 18).

Non stupisca questa sottolineatura di tensioni interne alla visione biblico-cristiana di Dio, che tutta la nostra tradizione teologica si è impegnata a sfumare e ricomporre nel complesso e profondissimo mistero della Trinità. Essa non è frutto del nostro sguardo critico moderno, ma sta nelle cose e sta nella pagina biblica al punto da costituire una delle fonti vitali della sua forza teologica e letteraria. Ce lo mostrerà il prologo di Giovanni con estrema chiarezza ed efficacia. Ma è bene prepararsi a comprenderne il rilievo esegetico con qualche cenno ad altri contesti biblici.

L’intero complesso narrativo della Genesi è mosso dal bisogno di ricollegare in qualche modo l’antica fede ebraica nel Dio dell’alleanza abramitica e della liberazione mosaica col Dio della creazione. Si prefigge ciòè di portare a compimento un processo di universalizzazione del Dio particolare di Israele, senza rinnegarne la storica verità. Alla fine l’Antico Testamento affermerà, per un verso, che l’elezione di Israele è in funzione di tutte le genti (Gen 12, 3) e, per un altro, che la legge mosaica, come espressione della divina sapienza, era già, in qualche modo, presente all’atto della creazione (Siracide 24). Il che è, per altro, una specificazione del più affermato tema della coeternità al creato della Sapienza, tipica controfigura universalista della rivelazione storica e dell’elezione (Proverbi 8, 23; Siracide 1, 4).

Il prologo di Giovanni sta in continuità con tutto ciò. E’ figlio di questo secolare processo di rielaborazione concettuale e narrativa, teologica e simbolico-letteraria.

Dal Verbo creatore al Verbo incarnato

Se la lettura di questa affascinante e misteriosa pagina evangelica ci ha sempre coinvolti e, in qualche misura, intimoriti, ora sappiamo perché. Il tema su cui ci chiama a misurarci è tra i più complessi che gli autori biblici abbiano mai affrontato. E’ il tema dell’estensione a tutti gli uomini della portata salvifica di un’esperienza personale. Nel caso Giovanni deve mettere in luce che la figura terrena del Gesù storico, che è stata per lui e per i suoi compagni di fede il culmine decisivo di un nuovo e sconvolgente incontro con Dio, non solo è ricollegabile alla tradizione religiosa secolare dell’intero Israele, ma è il vero fondamento di ogni umana esperienza di Dio e , in quanto tale, è comunicabile a tutti e da tutti accoglibile con pienezza di frutto.

In consonanza con la tradizione biblica, da cui riceve ispirazione e stimolo, egli procede ad una radicale reinterpretazione teologica della figura di Gesù, basata non su concetti ma su simboli. Costruisce cioè un percorso narrativo capace di esprimere sinteticamente l’unificazione di queste tre verità: Gesù è la piena rivelazione di Dio, Gesù è il compimento dell’alleanza e della legge mosaica, Gesù è l’incarnazione del Verbo creatore e quindi principio di vita e di luce per tutti.

Noi sappiamo, per altro verso, che Giovanni non è partito da zero nel suo lavoro. Ha utilizzato un inno preesistente, che si muoveva nella stessa direzione di altri inni citati da Paolo. Anche Paolo nella lettera ai Filippesi (2, 6-11) e nel ricordato passo dei Colossesi, ben prima di quando Giovanni concepisca il suo vangelo, utilizza e integra un canto liturgico già conosciuto. Ma questa notazione filologica non modifica, né complica , il nostro sforzo di comprensione del testo . Se mai, grazie alla migliore conoscenza del suo processo di formazione, lo sostiene.

Così è di fatto. L’inno, ripreso e adattato da Giovanni, ci dice che Giovanni non è solo nell’operazione teologica e letteraria fondamentale che sta compiendo. Non è solo ma non è neppure puramente ripetitivo. Crea in un contesto creativo e crea il "luogo teologico" del "Verbo creatore e incarnato", in continuità coi "luoghi teologici" della "Sapienza salomonica e celeste", e della "kenosi di Dio in Cristo Gesù" (Paolo, Filippesi 2, 6-11).

Ecco perché Giovanni apre il suo vangelo, scritto in greco, con le stesse parole con cui si apre la Bibbia greca dei Settanta: "En arché – In principio", ed ecco perché scandisce la sua versione dell’inno in tappe che progressivamente portano dal Verbo, coeterno a Dio e creatore di ogni essere (1, 1-3 a), a Gesù Cristo, presenza storica di Dio tra gli uomini (1, 14-18).

L’interpretazione del passo è esegeticamente molteplice, perché diverse sono le traduzioni, le ripartizioni e le interpretazioni dei singoli versi. Ma tra le tante a noi sembra davvero stimolante la lettura che ne propone X. Leon-Dufour, che ritiene che il testo non sia una semplice esaltazione della divinità di Cristo e neanche una enunciazione teologica delle diverse modalità di rivelazione della Parola di Dio, ma sia la messa in scena narrativa di un vero e proprio processo di crescita e di sviluppo del rapporto tra Dio e la realtà creata, sviluppo che coinvolge nella dinamica trasformatrice del dialogo tanto l’uomo quanto Dio. Il che, egli ritiene, sia reso evidente dalla possibilità di articolare l’inno in tre blocchi di due strofe ciascuno: il primo dedicato al Verbo creatore (1, 1-3a; 1, 3b-5); il secondo alla Luce di Dio diffusa nel mondo e testimoniata dai profeti nella persona del Battista (1, 6-8; 1, 9-13); il terzo-al Verbo incarnato nel Gesù storico, che Il Battista riconosce e da cui l’autore stesso dichiara di avere ricevuto "grazia su grazia" (1, 14 e 1, 15-18) (Lettura del vangelo secondo Giovanni, vol I, Cinisello Balsamo, 1989).

L’origine come apertura

L’esito di tale ripartizione e interpretazione è evidente: la distinzione, ma anche l’articolata relazione unitaria tra Verbo creatore, Luce storica e Verbo incarnato. Il primo è presso Dio ed è Dio, è vita e luce originaria di ogni essere creato, vita e luce che le tenebre non possono fermare (il verso 1, 5b tradotto "e le tenebre non l’hanno arrestata"). La seconda è la Luce vera che storicamente illumina tutte le genti e che è insieme rifiutata e accolta ("… e i suoi non lo accolsero"…"Ma a tutti coloro che l’accolsero…"). Il terzo è Verbo fatto carne, che dimora fisicamente tra noi, porta la grazia a completamento della legge e, unico, come Figlio che viene dal seno del Padre, può raccontarci Dio ("exegesato" tradotto "raccontare" invece di "rivelare").

Il che, mentre sottolinea che la divinità di Gesù è per il quarto evangelista una certezza non priva di problemi e di sfumature, contemporaneamente ci consente di dare alla sua successiva confessione di fede cristologica un fondamento universalista, tale da garantire che anche prima dell’incarnazione ogni uomo abbia potuto accogliere la rivelazione naturale e soprannaturale con esiti positivi e orientanti alla prossimità col Cristo. Non solo, ma ci introduce a pensare alla stessa unicità di Dio non in termini di unità statica e immutabile, ma di unità dinamica e vivente, vale a dire di relazione e di dialogo.

L’uomo - possiamo infatti concludere con Leon Dufour – è, ieri come oggi, alla ricerca delle sue origini. Per lunghi secoli ebrei e cristiani hanno risposto a questa ricerca col teologumeno del Dio creatore. Oggi tuttavia sono numerosi coloro che considerano questa risposta come l’appello ad un punto cieco, ad un puro atto di onnipotenza. Non è in questa direzione che ci indirizzano i testi confluiti nell’inizio della Genesi. Per essi l’origine si presenta come un dire di Dio, come un suo atto d’attenzione alla natura e all’uomo, e in Giovanni essa è addirittura una Parola costitutiva di Dio stesso, costantemente tradotta in donazione di vita e di luce e in ultimo di incarnazione.

"Questa semplice annotazione modifica radicalmente la concezione che sovente si ha di Dio. Se la Parola appartiene alla sfera di Dio, è il proprio di Dio. Il che significa che Dio non è un’individualità, per quanto sovrana e del tutto diversa dalla nostra, chiusa in se stessa, ma un essere che è potenza d’espressione di sé, dualità nell’unico e, come tale, fonte di relazione, rivolto verso un’immagine di sé che egli si è dialogicamente posto di fronte. Si potrebbe dire, secondo il prologo, che Dio è in espansione costante da se stesso". ( X. Leon Dufour, op. cit., p. 208)

Ma si potrebbe anche dire che questa è un’espansione rivolta, al tempo stesso, dentro e fuori di sé. Dentro, come passaggio dal Verbo in Dio a Luce nel mondo e da Luce nel mondo a Verbo incarnato. Fuori, come rivelazione sotto forma di vita delle cose, di luce che le porta a verità, di Figlio che ci racconta l’amore del Padre. E si potrebbe concludere che è proprio in questo percorso da Verbo a Figlio e da Dio a Padre che Dio si rivela come colui che sa comunicare grazia su grazia, e sa rendere l’uomo capace di diventare, da creatura naturale, suo familiare, in un dialogo tra libertà e libertà che nessuna tenebra può ostacolare.

Certo, sono solo alcune tra le infinite cose su cui un accurato commento del prologo giovanneo esigerebbe ci si fermasse, ma sono quelle che bastano a farci capire come la riflessione sul rapporto tra noi e l’origine non possa mai dirsi conclusa e trovi nei vari passi biblici, dedicati alla creazione, più degli indicatori di direzione che dei punti d’arrivo. E sono le cose che ci segnalano la perdita secca appioppata al pensiero dalle teologie che rinunciano ad interrogarsi sulla divinità di Gesù, o perché la danno per scontata o perché la escludono per principio.

Aldo Bodrato


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