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Alle prese col bene e col male (3)

Chi si avventura nelle Bibbia attraverso la lettura delle sue pagine iniziali non trova, cronologicamente ordinati, ben distinti e individuabili, i due racconti di creazione da noi commentati. Trova una trama ben più ampia e complessa, nata dalla loro fusione, trama che tende ad assumere i caratteri di una terza unità narrativa e che, come tale, chiede di essere affrontata.. Le diverse teologie della creazione e della caduta, che la tradizione ci ha trasmesso e che hanno elaborato i criteri comuni di lettura di queste pagine, sono concordi nel trattarle come un insieme unitario che fa parte della più complessa struttura letteraria e teologica della Bibbia.

E’ un orientamento che qualunque lavoro esegetico deve tenere presente. E’, infatti, questa la forma canonica in cui ogni passo biblico ci è pervenuto; quella su cui si fonda l’intelligenza delle Scritture per la fede ebraico-cristiana. Ma è orientamento che non può oggi essere utilmente attuato senza tener conto del lento processo di formazione del canone e degli scritti che lo costituiscono, senza procedere dall’individuazione e dall’analisi dei testi pre-biblici all’individuazione e all’analisi di quello biblico nella variegata forma da esso definitivamente assunta. Tanto più se, come accade per Genesi 1-11, tali pre-testi, non solo hanno generato il testo, ma in esso persistono, costituendo la totalità del suo corpo letterario, della sua non univoca sostanza narrativa e teologica.

I redattori e il canone non imprigionano, liberano la parola

Per tentare di capire come possono aver proceduto i redattori del Pentateuco quando, nel V secolo a C., hanno deciso di mettere insieme il documento Jahvista e quello sacerdotale, al fine di formare un unico racconto della creazione da premettere a quelli relativi all’avventura patriarcale e alle storie mosaiche, dobbiamo partire dal solo elemento testimoniale in nostro possesso, vale a dire il testo canonico frutto della loro fatica. Solo lui può aiutarci, a fare qualche ipotesi sui criteri con cui si è proceduto all’unificazione e sugli esiti culturali e teologici conseguiti da tale operazione.

Ora, come abbiamo visto, il racconto genesiaco della creazione ci consente di individuare e di distinguere con discreta sicurezza e precisione due unità narrative e, così facendo, ci indirizza anche a coglierne i punti di interserzione e i criteri di collegamento. Possiamo, dunque, affermare che i redattori hanno cercato di costruire il loro racconto intercalando i due testi in loro possesso e mantenedo quanto più possibile integri i rispettivi blocchi narrativi. Questo è loro riuscito quando questi blocchi si presentavano fortemente diversificati e caratterizzati, mentre in quelli in cui gli argomenti si sovrapponevano si sono trovati in difficoltà. Nel caso delle genealogie hanno privilegiato il Sacerdotale, facendogli quasi interamente inglobare lo Jahvista. Mentre in quello del diluvio, posti di fronte a due storie, parallele nel soggetto ma diversissime nella sua interpretazione teologica, si sono limitati a tagliarle e cucirle in una sorta di collage, che ci consente di ricostruirle interamente nella loro autonomia ma anche di leggerle in problematica unità letteraria e teologica.

In sostanza gli antichi scribi hanno finito con l’assumere come base il racconto sacerdotale, che offre l’apertura , la chiusura e la scansione temporale degli eventi. Poi, su tale base, hanno inserito le tre grandi sezioni mitiche pre-diluviane e le due brevi post-diluviane, proprie ed esclusive dello Jahvista, addivenendo per il racconto comune del diluvio al compromesso dell’intreccio. Il che viene spiegato dall’esegesi ebraica e cristiana antica, che non era in grado di individuare la presenza in queste pagine di due racconti ma ne coglieva le discrepanze e soprattutto il carattere ripetitivo, col principio dell’alternarsi di enunciazioni generali e descrizioni particolari. Il narratore, cioè, avrebbe prima enunciato in forma teorica e sintetica il dato teologico base della creazione (Gn 1), poi analizzato lo stesso nei particolari narrativi e psicologici (Gn 2, 3, 4).

Si tratta di una chiave di lettura acuta, che potrebbe anche essere stata presente ai redattori, ma che esige ulteriori riflessioni che consentano di includervi anche la soluzione del problema del diluvio. Qui essi rifiutando di limitarsi a porre i due racconti in serie, di scegliere l’uno a scapito dell’altro, di unificarli in modo da renderli irriconoscibili, si rifiutano di fare del testimone e dell’interprete delle Scritture il ripetitore e il notaio del pensiero altrui, il suo giudice o giustiziere. Ne fanno l’interprete, tanto più libero quanto più fedele, tanto più fedele quanto meno schiavo.

Il chiarimento di questo snodo esegetico, tipico del testo biblico nella sua forma redazionale e canonica, è irrinunciabile e orienta verso una cosciente scelta di apertura al pluralismo e alla problematicità nella trattazione dei temi teologici dell’origine. I redattori, che hanno fatto propri questi due testi, considerandoli ambedue parola di Dio, hanno sentito l’esigenza di unificarli narrativamente e teologicamente, di interpretarli in una nuova prospettiva inglobante, ma al tempo stesso, nell’impossibilità di ridurli l’uno all’altro, hanno optato per il mantenimento delle differenze, là dove queste non si componevano. Il risultato è che i redattori, conservando gli antichi testi e preparandoli per la canonizzazione, hanno finito col dirci che la parola di Dio sulla creazione non è unica ma duplice e aperta alla progressiva ricerca. Non solo; con questo loro lavoro, che è diventato parte integrante del canone, ci invitano ad analoga libertà fedele.

Miracolo del Canone è essere anti-canonico e della rivelazione essere anti-dogmatica. Del resto, perché mai la parola del Dio liberatore e creatore dovrebbe imprigionare la nostra parola di libere creature e privarla della capacità di crescere e moltiplicarsi?

La Bibbia è Parola di Dio, credibile e fedele, non infallibile

Ma qui non dobbiamo fermarci. C’è ancora qualcosa che la conservazione di questi due racconti di creazione all’interno del canone biblico, grazie ad una fusione interpretativa aperta, ci insegna. E’ qualcosa che si collega col ritrovarsi di questi testi accanto a molti altri che sullo stesso tema, in prospettiva sempre nuova e diversa, si aggiungono nei secoli al canone.

Il tema è caro all’esegesi conservatrice che tende a ridurre le diversità teologiche dei vari libri biblici all’unità dogmatica ed omologante della dottrina ecclesiastica. Ma è un tema che può avere esiti del tutto opposti, se si assume come criterio di lettura dei testi biblici non la chiave metafisica di tanta teologia tradizionale, ma la chiave ermeneutica propria della cultura biblica. Questa ci dice, infatti, che un testo non cancella l’altro, ma lo interpreta e ad esso si aggiunge come sfumatura, linea di tendenza, sviluppo od opposizione dialogica. Così è nata la Bibbia e così si è formato il canone, che nella tradizione continua e cresce, non per affermazioni dogmatiche, univoche, nemiche e mortali tra loro, ma per stratificazione di interpretazioni approssimative, cioè che alla verità si avvivicinano, senza esaurirla, senza escludersi, sostenendosi reciprocamente.

E’ così che la presenza nella Bibbia della doppia (o tripla) narrazione delle origini di Genesi 1-11, del monoteismo universalista e creazionista del Deutero Isaia (40-55), degli inni cosmogonici dei salmi (104; 103: 136;148), della parodia creazionista di Giobbe (38-41), del prologo giovanneo (1,1 e ss.), ci fa capire che la rivelazione biblica non procede in forma di evidenza o di dettatura divina , ma di intuizione e di riflessione umana, sia pure guidata da segni di divina presenza nella storia e di divina ispirazione nella produzione e nella rielaborazione della cultura umana. Il testo biblico mai pretende di dire puramente e semplicenmente ciò che Dio vuole, pensa e fa; ma sempre e solo ciò che questo o quell’uomo di Dio, questa o quella tradizione spirituale e culturale ritiene di poter testimoniare come opera, volere e pensiero di Dio. Sempre la Parola di Dio si presenta nella Bibbia come interprete fedele e credibile della verità della storia, mai come autorità indiscutibile, infallibile e irreformabile.

E’ ciò che porta Giona alla disperata ribellione, ma è anche ciò che ci insegnano lo Jahvista e il Sacerdotale e quanto ribadiscono i redattori canonizzandoli. Dio si pente e cambia giudizio? Dio crea il mondo in due modi diversi? O sono gli uomini, suoi interpreti, che vedono tale pentimento e mutar d’opinione, tale diversità d’operare? E’ indispensabile rispondere. Ma è possibile? Dove e come Dio ci dà modo di discernere tra la Sua e la nostra parola, a Suo e a nostro riguardo? Dove e come, se fin dall’Eden, ancora faccia a faccia con Lui, il serpente, che non era uno stupido, Eva e persino Adamo credettero di capire quanto non avrebbe dovuto neppure essere immaginato?

La creazione tra de- e ri-mitizzazione

Qualcuno potrebbe osservare che Dio di per sé parla chiaro, ma che è l’uomo che capisce una cosa per l’altra. Ha probabilmte ragione, ma dovrebbe anche aggiungere che a volte alcuni uomini di Dio, alcuni dei Suoi scribi, parlano chiaro e sono gli altri, uomini e scribi di Dio pure loro, che capiscono male e contribuiscono a confondere le acque.

Così è, mi pare, per i benemeriti redattori del Pentateuco. Nello sforzo di fare dello Jahvista e del Sacerdotale un solo racconto delle origini che nel suo sviluppo (operare creativo di Dio, errore e caduta dell’uomo, catastrofica punizione, restaurazione del bene e promessa di salvezza), potesse servire da modello introduttivo per analoghe vicende della storia salvifica di Israele (elezione e benedizione dei patriarchi abramitici, colpevole e catastrofico trasferimento in Egitto di dodici figli di Giacobbe, riscatto e promessa mosaica; elezione di Davide e sua intronizzazione a Gerusalemme, peccati dei re e del popolo con conseguente deportazione a Babilonia, ritorno e promessa di escatologica resturazione), essi hanno finito anche col compiere una singolare opera di rimitizzazione dei miti che gli antichi testi avevano, almeno parzialmente, demitizzato. Questo non senza pesanti conseguenze per l’interpretazione teologica successiva, almeno fino ai nostri giorne.

Non c’è commentatore che, esaminando, il racconto Jahvista della creazione, e ancor più quello sacerdotale, non insista sulla loro libertà nell’utilizzazione degli antichi miti, libertà che li porta a creaturalizzare la terra, il cielo e ogni altro essere che le antiche culture divinizzavano. Lo Jahvista sa di costruire una propria visione teologica delle origini saccheggiando, rimescolando e correggendo gli antichi racconti mitici degli altri popoli. Non ne ha certo la nostra concezione ermeneutica, ma neppure li considera come "Theologia prisca", venerabile ed intoccabile verità degli antichi. Usa il mito come veicolo linguistico del proprio pensiero. Il mito, in quanto linguaggio della sua parola teologica di verità, è per lui costitutivo, ma non legislativo. lo nutre, non lo domina ed egli ce ne dà numerosi indizi. In primo luogo la loro jahvizzazione e poi l’incipiente psicologizzazione e la spregiudicata ricollocazione sequenziale tesa a farne la preistoria della storia. E il Sacerdotale non è da meno. Anzi, in larga parte li giubila, sostituendoli con la seguenza semi-argomentativa dei sette giorni e dei dieci "disse". Conserva il mito del diluvio, abbiamo visto, ma per farne il veicolo di un efficacissimo manifesto sulla centralità dell’ordine e della legge.

Leggendo il racconto Sacerdotale dopo quello Jahvista e sapendo che cronologicamente lo segue, noi possiamo ancor più apprezzare il valore e il peso di questa demitizzazione, che diventa così quasi un processo e un invito all’imitazione. Ma tale invito si perde e il segno del processo si smarrisce nella risistemazione dei due racconti operata dai redattori. Ecco perché fino all’altro-ieri gli esegeti e i teologi non parlavano del carattere demitizzante del racconto biblico della creazione. Ciò era loro impossibile non solo perché tale terminologia non aveva corso prima del Novecento, ma anche perché tale carattere non era visibile nel testo biblico.

Gli antichi scribi della parola di Dio, primi responsabili del canone avevano, infatti, sì ricevuto, da coloro che riconoscevano come maestri tanto da sacralizzarne gli scritti, un preciso messaggio sull’uso dei miti, ma non lo avevano colto. Lo avevano frainteso al punto da operare una risistemazione dei testi, che lo contenevano, capace di occultarlo agli occhi dei lettori successivi, almeno fino a che qualcuno non avesse imparato a riconoscere la presenza di tale testi dentro quello canonico, a ricostruirne l’originalità e valorizzarne il messaggio.

E’ l’esito della collocazione dei racconti mitici di Genesi 2, 3 e 4, dopo Genesi 1, e dell’inserimento delle genealogie di Genesi 5 e Genesi 10 prima e dopo il diluvio. Col vigore argometativo e ordinatore del loro linguaggio vengono a legittimare l’oggettività narrativa dei testi mitici che introducono ed includono. Ogni lettore riconosce che il loro linguaggio è figurato e simbolico, ma ogni lettore è indotto a pensare che simbolicamente e figurativamente esprimano eventi nascosti, ma oggettivamente avvenuti ed è tentato di cercarvi concordanze scientifiche, a vedervi ipostatizzati il bene e il male, a satanizzare il serpente e assolutizzare la colpa di Adamo-ed-Eva fino a farne il peccato originale, mentre così non è e non era nei singoli racconti originari. Basta riscomporre l’unità del testo canonico, rendersi conto che è frutto della fusione di due racconti diversi per scoprire che ognuno d’essi è il racconto interpretante di una convinzione di fede e non la traccia immaginifica, ma preziosamente fedele, di un evento originario.

Aldo Bodrato


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