Gennaro Gattuso e gli altri

I giocatori della squadra italiana di calcio il giorno seguente la vittoria dei Mondiali erano sulle prime pagine di tutti i massmedia e quindi dei quotidiani italiani ed internazionali. Alcuni in Italia hanno dedicato all’avvenimento più di una pagina, sino alle 16 pagine dell’inserto del Secolo XIX. “Campioni del mondo”, “E’ tornata l’Italia”, “Ore 22.41, esplode il delirio azzurro”, “Azzurro mondiale!”, “L’Italia s’è desta!”, “Storica vittoria dell’Italia: batte la Francia ai rigori e conquista il Mondiale!”, “Dopo 24 anni la nazionale vince il quarto titolo: 6-4 contro la squadra di Zidane, espulso per una testata!”, ecc. I media stranieri si sono espressi allo stesso modo, con maggior o minore entusiasmo a seconda della simpatia verso l’Italia e in base al risultato da loro ottenuto nei Mondiali stessi.

Da tifoso “medio”, ricordando la vittoria dell’82 ed i caroselli in Piazza Duomo a Milano di tanti carri, simili a quelli dei carnevali, sui quali spiccava la figura ricostruita egregiamente di Paolo Rossi, pensavo che i festeggiamenti si sarebbero conclusi la sera stessa della vittoria a Berlino e che il rientro avrebbe comportato una semplice accoglienza all’aeroporto da parte di gruppi di tifosi particolarmente fedeli. La sera successiva invece, il 10 luglio, dopo l’atterraggio dell’aereo, è cominciata una festa di massa che raramente capita di vedere e che mi ha colpito particolarmente.

Il Presidente Napolitano si è espresso apprezzando la spinta all’identificazione nazionale, al ricupero del significato simbolico della bandiera tricolore come bandiera di una nazione e non di una sola parte; a Palazzo Chigi, sede della presidenza del Consiglio, il primo ministro ed i ministri più interessati allo sport hanno affermato concetti analoghi, hanno offerto un rinfresco, come ai capi di stato, hanno salutato personalmente tutti i giocatori, l’allenatore Lippi e tutti i componenti dello staff della nazionale azzurra. Al Circo Massimo infine, dopo un faticoso percorso del pullman scoperto che trasportava i giocatori a passo d’uomo in mezzo alla folla numerosa, c’è stato il tripudio finale – si parla di un milione di persone – che, credo, quasi tutti abbiamo visto o in diretta quella sera, o attraverso gli spezzoni nei telegiornali del giorno successivo.

Andando oltre le prime pagine e al di là delle immagini del giorno della vittoria, molti e di diverso segno sono stati i commenti. Chi si è chiesto se l’Italia meritasse quella vittoria, ed alcuni hanno espresso dubbi sia per gli scandali dell’ambiente del calcio, sia per il gioco stesso; chi ha posto il problema se il gioco dei Mondiali in generale sia stato buono, oppure troppo tecnico e poco spettacolare, come si converrebbe a dei giochi, ed ugualmente le opinioni si sono divise; chi si è domandato a cosa serve la fratellanza di pochi giorni, come questi dei Mondiali, oppure delle contese europee, o delle Olimpiadi stesse, se il giorno successivo le vittorie e le feste i conflitti tra paesi ed all’interno dei paesi stessi continuano come se nulla fosse accaduto; chi ha seguito la via del business ed ha ipotizzato un aumento del Pil del paese vincente; chi ha parlato di una strumentalizzazione del governo italiano di una vittoria della quale non ha nessun merito; e via dicendo.

Mi soffermo, tra i tanti, su un aspetto forse per molti scontato, ma che vale la pena ricordare: l’identificazione di grandi masse (sia quelle straniere cui abbiamo accennato - ho appreso io stesso dalla radio che giovani israeliani e palestinesi hanno festeggiato insieme la nostra vittoria -, sia quelle italiane, come il popolo straripante o le autorità governative) è un fenomeno non solo psicologico, ma anche sociale e politico, da studiare ed approfondire. Quali aspettative ci sono dietro quelle adesioni così massicce e vivaci? Quali desideri non realizzati, quale voglia di essere vincitori come i giocatori stessi? Studiosi geniali del secolo scorso e del nostro hanno rilevato come in queste manifestazioni ci siano aspirazioni non concretizzate nella vita quotidiana, soprattutto in epoca di crisi, e quindi una conseguente voglia di essere vincitori al pari dei calciatori o dei vincenti di turno. Questioni che mi pongo non solo in occasione di giochi mondiali, ma anche di manifestazioni sociali e politiche di grande impatto che hanno costellato la storia.

I malesseri sottostanti i trionfi dei giorni scorsi, come lapsus freudiani, emergevano qui e là ed apparivano a tutti: quando i nostri giocatori e tutto lo staff sono partiti per Berlino, il calcio italiano aveva appena toccato il fondo della corruzione; il tentato suicidio di Pessotto della Juventus aveva scosso gli animi per la sua imprevedibilità; le parole di Materazzi a Zidane debbono aver avuto gravi contenuti se hanno provocato una reazione così inusitata; svastiche e scritte antisemite hanno imbrattato, il giorno successivo la festa, le porte e le mura del quartiere ebraico di Roma; le notizie sui conti pubblici italiani li davano e li danno disastrosamente in passivo; i sindacati non accettano la manovra programmata dal ministro competente, ecc.

La lotta dei giocatori italiani e la loro vittoria, secondo questa lettura, hanno una duplice valenza, un doppio significato: sono vittorie sportive guadagnate correttamente sul campo nonostante le controindicazioni della vigilia e, proprio per questo, diventano uno stimolo a fare altrettanto, a lottare in ogni campo della vita ed esprimono un barlume di speranza di riuscita nonostante le avversità. Dicevano i latini: “si iste et ille, cur et non ego?” Se sono riusciti loro ad emergere, che venivano dal sospetto della corruzione, perché non può succedere a tutti noi di riuscire a vincere lottando correttamente senza cadere nelle tentazioni delle scorciatoie? Di qui l’identificazione massiccia.

Termino con una citazione. Gabriele Polo, nell’articolo di prima pagina de il manifesto dell’11 luglio, cita la figura di Gattuso ad indicare simbolicamente l’atteggiamento di tutta la squadra italiana. “Prendiamo sul serio la lezione di Germania 2006 e cominciamo a “riformare” il paese – altro sport nazionale – a partire dalla sua unica ideologia comunemente riconosciuta, la sola identificazione comunitaria che la globalizzazione sembra averci lasciato. Ce l’ha spiegato un giovanotto con la faccia da operaio (molto specializzato, visto lo stipendio) e i modi da ragazzo di periferia. Si chiama Gennaro Gattuso, viene dalla Calabria, non è un santo né un fuoriclasse, ma una cosa chiara in testa ce l’ha: non si possono imbrogliare le passioni…ha preso in mano lo spogliatoio della nazionale per dire che si poteva vincere (un mondiale) senza imbrogli e salvare la nazione (calcistica)… Quasi fosse Duccio Galimberti, ha invitato tutti alla “resistenza” contro le tante ipotesi di amnistia che da più parti si avanzano… E proprio in nome della coppa appena conquistata, frutto di un desiderio di riscatto, per ridare dignità alla “patria” tradita nell’intero sistema calcistico… Se un’amnistia cancellasse le vergogne dei potenti del calcio, la festa di ieri passerebbe alla storia come una vuota sbornia nazionalista di un paese evaporato e l’antipolitica godrebbe di un argomento in più.”

(15 luglio 2006)

Mario Arnoldi