Primo Maggio a Scampia

Disoccupati 43% Senza lavoro 74%

Epifani, Pezzotta e Angeletti sono presenti a Scampia per manifestare in occasione del Primo Maggio. A Milano e in molte città italiane ci s’incontra per la stessa ricorrenza e in altre 16 città d’Europa sfilano i “fedeli di San Precario”: è la May Day Parade.

Tutti i mass media ne parlano ed un quotidiano italiano si sofferma felicemente ad analizzare la situazione di Scampia, quartiere di Napoli, rappresentativa della condizione a dir poco precaria del lavoro attuale e delle conseguenze che ne derivano nella vita dei giovani, delle famiglie, delle città e della convivenza umana.

“Il tragico alfabeto di Scampia” è il titolo del servizio curato da Enrico Fierro su L’Unità di oggi. Ne riporto, reimpostandoli sinteticamente, alcuni passaggi significativi. Primo Maggio a Scampia per lo sviluppo e la legalità, recita lo slogan dei sindacati. I tre segretari generali festeggiano il lavoro dove il lavoro non c’è, nel cuore dolente di Napoli. Dove i cronisti piombano a frotte quando si spara e i morti vengono lasciati per strada…Arrivano i cronisti e raccontano il grande supermarket della droga...

Tutto su appena 4 chilometri quadrati. Qui vivono, dicono i dati ufficiali, 41 mila napoletani, ma sono i dati ufficiali, quelli reali parlano almeno di 60mila presenze, sfuggite ad ogni statistica. Simbolo di Scampia sono gli edifici a vela, sorta di moderne ziqqurat (i templi a struttura piramidale con i quali l’architettura mesopotamica amava rappresentare la montagna sacra), finanziati dalla Cassa per il Mezzogiorno nel 1962. Il modello ispiratore era quello delle unités d’habitations di Le Corbusier, la struttura a forma di tenda, case unite da lunghi ballatoi e di torre. Due di queste sono state abbattute nel ’97, una un anno fa, altre rimangono in piedi a simboleggiare il fallimento di un’utopia.

A Scampia il lavoro non c’è. I disoccupati sono il 43 per cento. E la disoccupazione giovanile svetta al 74 per cento, primo posto tra le realtà cittadine. Sono numeri, statistiche, percentuali del disastro sociale che raccontano una cruda realtà: il lavoro lo offre solo la camorra. La guerra di camorra tra il padrino di Scampia Paolo di Lauro (magliaro, spacciatore di droga, venditore di materiale elettronico in tutte le piazze d’Europa e degli Stati Uniti) e gli scissionisti, detti gli spagnoli, lo scorso anno ha lasciato sul terreno 46 morti e nel 2005 si è già a quota 30. Una guerra di mafia che ha seminato anche molti morti innocenti.

Ciampi in una visita a Scampia il 4 gennaio scorso ha invitato i presenti, che gli chiedevano di poter andare via dal quartiere, a rimanere e trovare la forza di andare avanti. La speranza sono i preti coraggio, le persone oneste che vivono nel quartiere, gli insegnanti che lottano contro un’evasione scolastica altissima. Anche la manifestazione dei tre sindacati, e dei relativi segretari, può essere una speranza per il riscatto del Bronx di Napoli. Ma a patto che il giorno dopo si cominci a cambiare davvero.

Andando oltre il caso di Scampia, possiamo affermare che, nel mondo attuale, oltre la crisi strutturale del lavoro, si aggiungono situazioni di sciacallaggio attorno ad esso.

Sulla crisi del lavoro nel sistema produttivo attuale si è soffermato più volte M. Revelli, che in una sua recente conferenza analizzava “ la fine del lavoro”. “Il relatore osservava anzitutto che la formula – fine del lavoro - è presa dal testo di Jeremy Rifkin, pubblicato negli anni Novanta. Con questa formula non si intende ‘scomparsa’, quanto piuttosto trasformazione, stravolgimento del lavoro. Il lavoro oggi non è più sicuro, strutturato in senso taylorista o fordista. E’ finito, o comunque storicamente superato, il lavoro normato, contrattualizzato, socialmente visibile. Il Novecento è stato il secolo del lavoro per eccellenza. Ma con la fine del Novecento quel tipo di lavoro è finito. Le nuove tecnologie, che specializzano e parcellizzato, la ‘rottura’ dei grandi contenitori, delle unità produttive con la conseguente esternalizzazione, la disseminazione dei processi produttivi, la delocalizzazione delle catene produttive, la precarizzazione, la moltiplicazione delle figure del lavoro, sono fenomeni, tutti che hanno reso il lavoro socialmente invisibile. Lo stesso modello socialdemocratico, organizzato intorno al lavoro, è entrato in crisi come preconizzava André Gorz nel suo saggio, pubblicato nel 1980, Adieu au proletariat.” (www.acsal.org).

Come accennavamo poco sopra, sulla crisi del lavoro si innestano diverse forme di sfruttamento, al punto che le organizzazioni sindacali, se da un lato devono attrezzarsi per le nuove forme di lavoro flessibile, precario, a volte inesistente, debbono anche prendere i contatti con tutte quelle forze sociali che si occupano di ridare un volto umano alle situazioni di convivenza, per evitare che queste subiscano le angherie collegate con la mancanza del lavoro stesso.

Il presidente Ciampi, durante la manifestazione a Milano del 25 aprile scorso, sessantesimo anniversario della liberazione dall’oppressione nazifascista, in un discorso particolarmente caloroso affermava: “Noi non dimentichiamo nessuno di coloro che furono protagonisti della lotta per la libertà di tutti gli italiani. Non dimentichiamo la Resistenza operaia esplosa negli scioperi di massa nel marzo ’43 a Torino, Milano, Genova e in altre città, prima della caduta della dittatura. Non dimentichiamo la Resistenza dei militari che, dopo l’8 settembre del ’43, nello smarrimento delle istituzioni, trovarono nel loro cuore le radici di un orgoglioso amor di patria, che li spinse all’azione. Non dimentichiamo i civili che, a Roma e altrove, si unirono a loro per la difesa della loro città, o, come a Napoli, si batterono per cacciare le forze d’occupazione…”

Parole ferme e coraggiose, che danno un orientamento forte in questo periodo di revisionismi dettati non da ricerca storica oggettiva, ma da interesse di parte. La Costituzione che nacque da quella lotta mise al primo posto “L’Italia è una repubblica democratica basata sul lavoro…”. Pur nel cambiamento delle forme del lavoro, quella lotta per la libertà di tutti, intesa nel senso più ampio, non deve cessare.

(1 maggio 2005)

Mario Arnoldi