Il ruolo delle donne nella costruzione della pace in Afghanistan

Che cosa ci si può aspettare, ai fini della trasformazione della società, dalle donne afgane, oppresse come sono e blindate dentro il pesante burka imposto loro dai Talebani, disumani e fondamentalisti? I divieti imposti sui diritti all’educazione, al lavoro e alla libertà di movimento, nonostante le dichiarazioni contrarie di alcuni ufficiali talebani, sono rimaste in vigore.

Nonostante questa situazione, le donne in Afghanistan si sono organizzate in modo clandestino e svolgono attività di educazione dei bambini e di assistenza ai profughi, sia lavorando sul versante afgano e, più recentemente, dopo i bombardamenti, sul versante pakistano. Le organizzazioni maggiori sono RAWA ("Associazione rivoluzionaria delle donne afgane", dove il termine "rivoluzionario" non significa uso delle armi, ma semplicemente alternativo) ed HAWCA (Associazione umanitaria per le donne ed i bambini afgani). Ed è appunto con queste associazioni che si è incontrata, dal 30 ottobre al 6 novembre scorso, la delegazione italiana promossa dalle Donne in nero (un movimento internazionale di donne pacifiste), formata da Luisa Morgantini (Prc), Luana Zanella (verde), Elettra Deiana e Titti De Simone (Prc), Marina Sereni (Ds), Pia Locatelli della Commissione nazionale per le pari opportunità, e, tra altre, da una rappresentante dell’Istituto per la Cooperazione allo Sviluppo di Alessandria (ICSAL), un consorzio di enti locali del Piemonte Orientale, che da una decina di anni promuove progetti di sviluppo nei paesi del sud del mondo, costruzioni di scuole, ospedali, acquedotti, ecc.

Le parlamentari hanno tenuto una conferenza stampa il mercoledì 7 novembre alle ore 11.00 nella sala stampa della Camera. Le stesse notizie a me giungevano, oltre che dalla trascrizione degli interventi, dalla viva voce della delegata dell’ICSAL che ho ascoltato in un’analoga conferenza stampa lo stesso giorno ad Alessandria.

E’ tramite le due associazioni di donne ed il Commissario per i rifugiati afgani che riusciamo a visitare due campi profughi, dice Titti De Simone nella sua relazione. Il governo pakistano dichiara che dall’inizio dei bombardamenti sono arrivati tra i 60 mila e gli 80 mila rifugiati afgani. Una cifra che si va ad aggiungere agli oltre tre milioni di rifugiati già presenti in Pakistan, un milione e mezzo soltanto dall’inizio del regime talebano. Solo nella provincia di Peshawar i profughi sono un milione e 700 mila circa, di questi 600 mila vivono fuori dai campi in città o in campagna. Spiega il commissario per i rifugiati afgani che dall’inizio dei bombardamenti anche le speranze di sopravvivenza dei rifugiati che vivono in Pakistan da più anni sono diventate più esili, perché il commercio dei tappeti con l’Occidente si è interrotto, un’attività artigianale che riguarda almeno 300 mila famiglie afgane.

Con il commissario visitiamo due campi di Peshawar, il primo a Cheratkan ospita trentamila profughi. E’ uno dei più antichi insediamenti, con le scuole e una clinica. Di fianco alla scuola dei bambini c’è un enorme cimitero, una distesa di tombe come un secondo campo nel campo. Ma a Jelizai, a 30 km da Peshawar, troviamo una situazione più drammatica. Un campo che esiste da un anno e che ospita 75 mila profughi in un’enorme tendopoli tra il fango e le fognature a cielo aperto; 20 mila sono bambini. C’è solo il presidio medico e le latrine, gli aiuti umanitari sono gestiti dall’agenzia dell’ONU per i rifugiati e quando arriviamo troviamo i volontari di "Medici senza frontiere" e da domani cominciano la campagna di vaccinazione contro la poliomielite, una malattia che uccide centinaia di bambini rifugiati ogni anno. Questi bambini di Jelizai ci accolgono con gioia, ci sorridono, vogliono essere fotografati. Tra qualche settimana l’agenzia per i rifugiati comincerà a trasferirli in un campo più attrezzato dove passeranno l’inverno.

E’ nel quartiere afgano di Khihan Sir Saeed di Rawalpindi, dice Giuliana Sgregna, che si trova l’edificio che ospita la scuola per i profughi afgani gestita da RAWA, l’organizzazione di donne afgane che in questi anni più si è battuta contro tutti i fondamentalismi. Un sottoscala ospita uno stuolo di ragazzi che fanno scarpe per poche rupie al giorno. Sono tutti molto giovani e lavorano per lo stesso padrone. Molti bambini non sono mandati a scuola o lo sono per poche ore perché devono lavorare insieme ai genitori, o da soli, per sbarcare il lunario. La scuola primaria Heewd è al primo piano, la pulizia contrasta drasticamente con la sporcizia che ci siamo lasciati alle spalle. Così come il fatto di trovarci di fronte a delle classi miste, mentre in alcuni campi profughi ci sono scuole per bambine, e non ci sono dappertutto, dove le allieve sono costrette a studiare con le finestre murate, un unico piccolo spiraglio in alto. Molti non avrebbero la possibilità di studiare – pashtun, dari, inglese, storia e geografia, scienze e religione - se non ci fosse questa scuola gratuita d’impostazione afgana. Ci sono anche donne adulte che hanno deciso di riscattarsi con lo studio, assolutamente proibito alle donne nell’Afghanistan dei Talebani. RAWA è un simbolo per le afgane che hanno deciso di rifiutare l’ordine imposto dai Talebani.

Le esperienze fatte e viste dalle inviate della delegazione sono moltissime, quelle descritte ci servono di indicazioni per le altre simili. Tornate dal Pakistan le parlamentari italiane intendono continuare a lavorare e a sostenere le donne delle associazioni citate. Per questo propongono la costituzione di un gruppo interparlamentare di contatto che mantenga la continuità del lavoro comune già intrapreso. Si tratta di donne davvero straordinarie, colte, giovani e intelligenti - ha detto la deputata Marina Sereni – sono la possibile nuova classe dirigente del paese. La loro attività clandestina, per cui rischiano ogni giorno il linciaggio, è stata solo parzialmente interrotta dai bombardamenti americani, infatti continua, come abbiamo detto, nei campi profughi in Pakistan. Nelle scuole che abbiamo visitato – ha detto Elettra Deiana – si notava immediatamente la differenza fra quelle gestite dalle Ong o dalle agenzie umanitarie dell’ONU da quelle condotte da RAWA e da HAWCA. Le potenzialità delle donne afgane sono enormi e la civilizzazione passerà solo attraverso i loro percorsi, ma queste potenzialità si manifestano in un contesto disastroso. L’azione militare, ha aggiunto, può distruggere ogni potenzialità e risucchiare la forte presenza maschile afgana nel fondamentalismo.

Le parlamentari sostengono la partecipazione e il coinvolgimento delle organizzazioni femminili nei negoziati per la soluzione del conflitto e nel processo di transizione verso la democrazia in Afghanistan. E proprio perché vogliamo indicare una politica internazionale diversa, secondo Luana Zanella, occorre dare visibilità e sostegno a queste donne affinché questa rosa nel deserto diventi una forza in fieri della società afgana e anche pakistana. Né coi Talebani, né con l’Alleanza del Nord, contro ogni integralismo, per la pace. E’ questa la proposta della società civile afgana rifugiata in Pakistan.Non può esserci un dopo-taleban senza democratizzazione e laicità dello stato. Pia Locatelli ha anche ricordato varie individualità di donne dotate di grande personalità che danno molto per l’affermazione dei diritti umani in quelle regioni tanto martoriate. I mass-media preferiscono parlare di realtà che si impongono con le armi ed il fanatismo, perché fanno più audience e parlano poco di donne e di realtà più silenziose ma ugualmente efficaci, anzi di grande speranza per una politica futura più democratica. Il rientro delle donne è stato funestato dalla notizia della votazione dell’intervento dell’Italia nella guerra degli USA, della qual guerra ho già parlato a lungo. Per informazioni sui progetti a sostegno di RAWA e HAWCA, e-mail: nafas-din@yahoo.it

(15 novembre 2001)

Mario Arnoldi