Barbiana non c’era sulla carta geografica in quel lontano ’54...

26 giugno, una data da non dimenticare

Ci sono luoghi che hanno un fascino particolare e lasciano nel visitatore segni di commozione o per la bellezza della natura che li circonda, o per un ricordo particolare del passato personale o collettivo, oppure per le caratteristiche di uno o più personaggi che là si sono incontrati. Ciascuno di noi ha i suoi luoghi memorabili. Si contano sulla punta delle dita. Penso ad amici che sono tornati trasformati da un viaggio in India, o in un paese nel cuore dell’Africa, od a Gerusalemme; a persone trasfigurate quando hanno scoperto l’amore, hanno dato alla luce un figlio o hanno vissuto un’esperienza mistica. Luoghi che emanano un mistero e spingono a vivere quel mistero al di là o nella quotidianità della vita.

Per me uno di questi luoghi è Barbiana. Quando vi sono giunto la prima volta, in anni non lontani, sono stato preso da quella piccola frazione, chiesa casa cimitero, incastonata nella conca alle pendici del monte Giovi; silenzio assoluto; nessun’altra persona; un arcobaleno splendido, che sembrava a portata di mano, - era appena cessato un temporale - attraversava quell’angolo di meravigliosa e tremenda solitudine. Premeva in me il ricordo della figura di don Milani che ho ammirato, letto, amato, seguito come punto di riferimento e che sapevo sepolto nel piccolo cimitero poco sotto la chiesa nella terra sempre umida.

Sono ritornato più volte. Ricordo in modo particolare il 26 giugno di due anni fa, giorno in cui don Lorenzo morì nel ’67, perché sapevo che la chiesa e l’aula scolastica sarebbero state aperte. Me lo aveva comunicato telefonicamente Michele Gesualdi, che ha in custodia il complesso di Barbiana e quel giorno era là con parenti, amici e con un gruppo di giovani, ai quali ha tenuto una relazione su don Milani. Un sacerdote la mattina aveva celebrato Messa nella chiesetta. Ho provato sensazioni più serene: il luogo era popolato di persone, era aperto ed il tempo era bello. Finalmente potevo dare forma locale a quanto avevo fantasticato nel passato. Un unico rammarico: non ci sono in questo giorno gli altri ex alunni, alcuni dei quali ho conosciuto altrove: assenza che è segno di faticose dialettiche che sarebbe complesso ricordare.

L’aula scolastica, pressoché intatta, mi riconduceva al vissuto, dal ’54 al ’67, descritto da Lettera a una professoressa, libro nato dalla "scrittura collettiva" dei ragazzi, ai quali il priore faceva da "regista", che segnò una svolta nella concezione della scuola discriminante del tempo. Pensavo all’elaborazione, sino al ’58, delle esperienze vissute precedentemente a San Donato a Calenzano presso Prato, pubblicate nel libro Esperienze Pastorali, che fece scandalo, nel quale don Milani proponeva una pastorale che non si limitasse alla semplice somministrazione dei sacramenti, ma partecipasse alle preoccupazioni esistenziali della popolazione e desse alla gente una preparazione culturale, cosa che il giovane cappellano fece promovendo la "scuola popolare". Quella pastorale gli meritò la "promozione" a Barbiana. La passione ad insegnare è espressa da don Lorenzo stesso nella Lettera al direttore del "Giornale del mattino del 28 marzo 1956: "Io sono sicuro che la differenza tra il mio figliolo e il vostro non è nella quantità né nella qualità del tesoro chiuso dentro la mente ed il cuore, ma in qualcosa che è sulla soglia stessa: la Parola. I tesori dei vostri figlioli si espandono liberamente da quella finestra spalancata. I tesori dei miei sono murati dentro per sempre ed insteriliti. Ciò che manca ai miei è dunque solo questo: il dominio sulla parola. Sulla parola altrui per affermarne l’intima essenza e i confini precisi, sulla propria perché esprima senza sforzo e senza tradimenti le infinite ricchezze che la mente rinchiude". Secondo un’attendibile interpretazione, per don Lorenzo la Parola era allo stesso tempo parola umana e parola divina (p/Parola), e questo spiega come il suo impegno sacerdotale coincidesse con l’impegno d’insegnante: educatore laico e prete totale allo stesso tempo. Nel libro curato da Giorgio Pecorini, I care ancora, Ed. EMI, Bologna 2001, sono pubblicate diverse lettere inedite e quelle inviate a Francuccio, o Cuccio, già all’estero a 14 anni per imparare le lingue, rivelano con quanta amorevolezza don Lorenzo seguisse i suoi ragazzi anche lontani. Emergevano infine alla mia mente gli spunti della Lettera ai giudici sulle guerre ingiuste d’aggressione combattute dall’Italia, nonostante la Costituzione affermi che la guerra si giustifica solo se è guerra di difesa.

Le motivazioni dell’agire di don Milani sono espresse più volte: "Cercasi un fine. Bisogna che sia onesto. Grande. Che non presupponga nel ragazzo null’altro che d’essere uomo. Cioè che vada bene per credenti e atei... Il fine giusto è dedicarsi al prossimo... Ma questo è solo il fine ultimo da ricordare ogni tanto. Quello immediato da ricordare minuto per minuto è d’intendere gli altri e farsi intendere"... "ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da solo è avarizia." (Lettera a una professoressa, pp. 94 e 14).

A metà pomeriggio di quel giorno di festa serena, quando tutti ormai s’incamminavano per il ritorno, come ogni altra volta prima di partire, sono andato verso il cimitero, una cinquantina di metri più giù, un piccolo terreno rettangolare, con diverse tombe annerite dal tempo ed una che spicca sul fondo, pietra bianca, con su scritto "Don Lorenzo Milani, 1923-1967, priore di Barbiana", senza foto, con accanto un mazzo di fiori sempre freschi. Vicino a quella tomba nella terra umida mi sento messo a nudo, cerco spunti di un’essenzialità più profonda: don Lorenzo ha vissuto sulla sua pelle la solitudine ed il dolore, prima a San Donato e soprattutto a Barbiana, ed è per questo che, reagendo, ha capito la solitudine ed il dolore degli altri. Ed ha intuito che le istituzioni, siano esse religiose o laiche, hanno un senso se servono ad alleviare la sofferenza umana, e sono da trasformare quando non assolvono a questo compito. In questo contesto è da interpretare la frase "l’obbedienza non è più una virtù" (Lettera ai giudici, p. 51). Scendendo in macchina e ondeggiando sulle buche della strada sterrata, pensavo, ricordando Ernesto Balducci, "quante Barbiane nel mondo d’oggi" e quanto pochi don Lorenzo! Auspico la riscoperta del bene come fine comune, una scuola che prepari nuove generazioni che non discriminino i poveri dai ricchi, un mondo globalizzato non solo per l’economia ma anche per i diritti umani, una lotta feconda per la pace e l’integrazione tra i popoli e mi auguro che la nostra epoca ritrovi figure di "padri" autorevoli e che i profeti non siano dimenticati.

(15 giugno 2001)

Mario Arnoldi